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Portopalo, la tragedia di Natale rimossa

Morirono in 283. I pescatori che riportavano in mare reti cariche di corpi furono scoraggiati dal parlare. Non ci furono funerali pubblici, né un’immediata assunzione di responsabilità istituzionale. La tragedia rimase senza nome e senza memoria. Nella notte tra il 25 e il 26 dicembre 1996, mentre l’Italia celebrava il Natale, al largo di Portopalo di Capo Passero affondava un battello carico di migranti provenienti soprattutto da Pakistan, India e Sri Lanka. È una delle più grandi tragedie navali nel Mediterraneo. Eppure, per anni, lo Stato italiano ha minimizzato l’accaduto. Il silenzio che circondò la cosiddetta strage di Natale è uno dei capitoli inquietanti della storia recente del Paese.

Nel 1996 al governo c’era il centrosinistra dell’Ulivo, con Romano Prodi presidente del Consiglio e Giorgio Napolitano ministro dell’Interno. È un dato che rompe una narrazione comoda: le grandi tragedie migratorie non iniziano con i governi sovranisti. Avvengono anche sotto quelli che si definiscono progressisti ed europeisti. L’Italia non disponeva di una politica strutturata sull’immigrazione. La legge Martelli del 1990 aveva introdotto alcuni strumenti di tutela, ma mancavano canali legali d’ingresso adeguati, un sistema di soccorso in mare coordinato e una visione di lungo periodo. L’immigrazione era trattata come un’emergenza, non come un fenomeno strutturale.

Le responsabilità istituzionali nel caso di Portopalo non riguardano tanto un ordine diretto, quanto una somma di omissioni: assenza di controlli efficaci, ritardi nelle indagini, mancanza di trasparenza. Solo anni dopo, grazie al lavoro di giornalisti e magistrati, la verità emerse. Fu soprattutto grazie all’inchiesta di Giovanni Maria Bellu de L’Espresso e l’impegno del pescatore Salvatore Lupo che la strage venne portata all’attenzione pubblica nei primi anni Duemila. Fu il marinaio di Portopalo, infatti, a rivelare a Bellu che dalle sue reti un bel giorno vennero fuori pantaloni, magliette, scarpe, monete e una carta d’identità di un Paese straniero, scritta in caratteri incomprensibili. Era quella di Anpalagan Ganeshu, 17 anni, tamil, di nazionalità singalese. 

Una pagina del Corriere della Sera, a distanza di oltre due mesi dal naufragio che testimonia i ritardi

Due anni dopo la strage, nel 1998, venne approvata la legge Turco-Napolitano, che istituì il Testo Unico sull’Immigrazione. Fu sicuramente un passo avanti, ma restavano ambiguità. Accanto a pochi strumenti di integrazione introdusse i Centri di permanenza temporanea (Cts) confermando una gestione difensiva del fenomeno.

Il copione si ripeterà nel tempo quando, nel 2013, ci fu la strage di Lampedusa con oltre 300 vittime sotto il Governo delle larghe intese di Enrico Letta con ministro degli interni Angelino Alfano. Due anni dopo avvenne quella che sarebbe stata la più grave tragedia del Mediterraneo in tempo di pace che avvenne il 18 aprile 2015, con il governo Renzi e con ancora Angelino Alfano ministro dell’Interno: oltre 800 persone morirono in mare. L’operazione Mare Nostrum, avviata dopo la strage di Lampedusa del 2013, era stata chiusa e sostituita da quella europea, Triton, che aveva un mandato limitato al controllo delle frontiere.

Con Matteo Salvini, tra il 2018 e il 2019, cambia il linguaggio: la chiusura dei porti viene rivendicata apertamente, i decreti sicurezza criminalizzano le Ong, il caso Open Arms porta Salvini a un processo per sequestro di persona che finirà nel 2025 con l’assoluzione definitiva: “Cinque anni di processo: difendere i confini non è reato” scriverà su X sotto una sua foto su cui è scritto ‘assolto’. Salvini segna comunque una rottura nel linguaggio e nella rivendicazione politica della chiusura, ma non interrompe la sequenza di morti in mare. Cambia la narrazione, non l’esito, tanto che nel 2023 ci fu Cutro con 94 vittime accertate. L’Oim (organizzazione mondiale dell’immigrazione) ci dice che ormai i morti fra migranti e rifugiati che hanno tentato l’attraversata sono più di trentamila.

Il problema non è solo italiano. Il Regolamento di Dublino ha scaricato l’onere dell’accoglienza sui Paesi di primo approdo, senza una reale solidarietà europea. L’Unione ha privilegiato il controllo delle frontiere rispetto a politiche comuni di integrazione. In Italia pesa anche una questione culturale, poiché c’è la difficoltà a riconoscersi come Paese di immigrazione. L’Italia delega l’accoglienza al volontariato e non riesce a riformare le norme per la cittadinanza ancora ferma alla legge del 1992. Una normativa, questa, basata sullo ius sanguinis che addirittura è stata limitata con la legge 36/2025. Eppure, in un Paese segnato dal calo demografico e dalla carenza di manodopera, l’immigrazione non è solo inevitabile, ma necessaria.

Ricordare Portopalo, oggi, significa interrogarsi non solo sul passato, ma sul presente. La strage di Natale è il simbolo di un’incapacità collettiva: quella di trasformare valori solennemente proclamati in politiche concrete. Finché l’immigrazione resterà un’emergenza da contenere e non una realtà da governare, il Mediterraneo continuerà a restituire morti. E ogni governo, qualunque sia il suo colore, porterà con sé una parte di questa responsabilità.

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