Classica e lirica, altro che crisi. Programmi coraggiosi, teatri in periferia, più fiducia negli spettatori: la rivoluzione gentile della Cina indica il (possibile) futuro
Shanghai oggi non è soltanto una metropoli che corre più veloce delle altre: è uno dei luoghi in cui la musica classica sta cambiando pelle. Entrare in una sala da concerto della città significa assistere a una mutazione silenziosa ma profonda del sinfonismo europeo. Le forme sono riconoscibili, il linguaggio pure, ma il contesto, il pubblico e persino il modo di costruire una stagione raccontano un’altra storia. Non una semplice importazione di modelli occidentali, bensì la nascita di un ecosistema musicale nuovo, consapevole e strutturato, che guarda al futuro senza complessi di inferiorità.
Negli ultimi vent’anni la Cina è passata da mercato periferico a protagonista globale della musica classica. Oggi il Paese conta oltre ottanta orchestre professionali, decine di conservatori di eccellenza e un pubblico che cresce a ritmi sconosciuti all’Europa. E Shanghai è il cuore di questo sistema. La sua orchestra sinfonica, fondata nel 1879 e rilanciata in chiave contemporanea negli anni Novanta, è oggi una delle più attive al mondo, con stagioni che superano i cento concerti annui. Accanto alla Shanghai Symphony Orchestra operano anche la Shanghai Philharmonic, numerosi ensemble da camera, orchestre universitarie e formazioni dedicate alla musica contemporanea. Non si tratta di una proliferazione caotica, ma di una rete coordinata, sostenuta da politiche culturali precise e da un pubblico pronto a seguirla.
La vera novità però non è solo quantitativa, ma qualitativa, e riguarda il modo in cui vengono pensati i programmi. Una stagione sinfonica-tipo a Shanghai non è costruita per “iniziare” il pubblico a Mozart o Beethoven, come spesso accade in Europa, ma per dialogare con ascoltatori già competenti, curiosi e disposti a rischiare. Nei cartelloni convivono cicli mahleriani, integrali beethoveniane, grandi pagine tardo-romantiche e programmi tematici che mettono in relazione repertorio occidentale e musica cinese contemporanea. Un concerto può affiancare una sinfonia di Brahms a una nuova commissione ispirata alla poesia classica cinese, oppure aprirsi con una pagina di un compositore vivente per poi culminare in Stravinskij o Bartók. La presenza di compositori cinesi contemporanei, infatti, è una costante, non un’eccezione. Tan Dun, Qigang Chen, Li Huanzhi, Wu Houyuan, Lu Zaiyi, Chen Gang non compaiono come quota “identitaria”, ma come parte integrante del discorso musicale globale. Le loro opere dialogano con Debussy, Messiaen o Shostakovich, mostrando come la scrittura sinfonica occidentale possa assorbire scale pentatoniche, timbri tradizionali e concezioni temporali diverse senza perdere coerenza.
Non è folklore: è una nuova grammatica musicale che prende forma stagione dopo stagione, attraverso commissioni, prime esecuzioni e cicli dedicati alla musica del XXI secolo. Questa convivenza tra scrittura sinfonica europea e tradizione cinese risulta chiara se consideriamo alcuni brani di compositori cinesi che saranno eseguiti durante la stagione sinfonica di quest’anno. In Red Plum Capriccio (1980), ad esempio, Wu Houyuan utilizza l’erhu (violino a due corde della tradizione popolare) come vero protagonista concertante, inserendolo all’interno di una forma che richiama il concerto solistico di tradizione europea. L’orchestra non si limita ad accompagnare, ma dialoga con lo strumento solista secondo una logica drammaturgica tipicamente sinfonica: esposizione, tensione, rilascio. Tuttavia, la voce dell’erhu porta con sé un modo di fraseggiare profondamente diverso da quello degli archi occidentali. I glissandi, le flessioni microtonali e l’uso espressivo del vibrato derivano direttamente dalla prassi esecutiva tradizionale cinese e trasformano la struttura del concerto occidentale dall’interno. Il risultato non è un innesto esotico, ma una ridefinizione del ruolo del solista, che parla una lingua timbrica diversa pur muovendosi dentro una grammatica formale riconoscibile.
Diverso ma complementare è l’approccio di Qigang Chen in Er Huang, for piano and orchestra (2009). Qui il dialogo con l’Occidente non passa attraverso uno strumento tradizionale, ma attraverso la concezione del tempo e della forma. Il riferimento allo stile erhuang dell’Opera di Pechino (approccio melodico del teatro cinese per definire il tono malinconico di una scena) non si traduce in citazione folklorica, ma in un’assimilazione profonda dei materiali melodici e gestuali: linee flessibili, di natura pentatonica e declamatoria, conservano un legame con il canto e l’oralità tradizionale. Chen adotta la struttura del concerto occidentale, con il pianoforte come polo drammatico centrale, ma ne dilata i processi: lo sviluppo tematico non procede per conflitto e risoluzione, bensì per trasformazioni graduali, ritorni e sospensioni. Il tempo musicale tende a essere circolare e contemplativo, più vicino alla sensibilità della tradizione cinese che alla dialettica classica europea. L’uso delle tecniche armoniche, delle progressioni cromatiche e di elementi ritmici e timbrici mutuati dalla scuola francese (pensiamo all’influenza di Debussy o Messiaen) arricchisce la superficie orchestrale, producendo un suono che appare al tempo stesso familiare e originale. Ne nasce un linguaggio in cui la forma occidentale accoglie una diversa percezione del tempo, dando vita a una musica insieme globale e intimamente radicata.
Queste due composizioni ci mostrano dunque come la musica sinfonica a Shanghai non funzioni più per contrapposizioni tra Oriente e Occidente. La forma concerto, l’orchestra moderna e il linguaggio sinfonico restano il quadro di riferimento, ma vengono attraversati da gesti, timbri e concezioni temporali che provengono dalla tradizione cinese.
Ma torniamo ai cartelloni della stagione. Anche il Novecento europeo, spesso considerato “difficile” per il pubblico occidentale, trova a Shanghai uno spazio sorprendentemente centrale. Schoenberg, Berg, Ligeti o Lutosławski vengono programmati senza eccessive cautele, inseriti in contesti che ne facilitano la comprensione attraverso accostamenti intelligenti e introduzioni mirate. La logica curatoriale non è rassicurare, ma stimolare. Il pubblico non è trattato come un neofita da accompagnare con prudenza, ma come un interlocutore attivo, capace di confrontarsi con linguaggi complessi. Anche la struttura dei concerti riflette questo approccio. Molti programmi durano meno rispetto alle tradizionali serate europee, ma sono più densi: un’ora e mezza con intervallo e introduzioni dal vivo affidate a musicisti, direttori o musicologi. In alcuni casi vengono utilizzati supporti visivi o testi proiettati per contestualizzare le opere. La formalità dunque resta, ma è alleggerita: il rituale del concerto non viene smantellato, bensì adattato a un pubblico che vive la musica come esperienza culturale, non come cerimonia intoccabile.
Ma questo pubblico non nasce dal nulla. È il prodotto di un sistema educativo capillare che ha fatto del repertorio classico uno strumento di formazione sociale. Milioni di bambini studiano pianoforte o violino fin dall’infanzia. Anche se solo una minima parte diventerà professionista, la familiarità con il linguaggio sinfonico resta. I concerti non sono percepiti come eventi elitari, ma come momenti di partecipazione culturale, al pari di una mostra o di uno spettacolo teatrale. I biglietti hanno prezzi differenziati, con forti agevolazioni per studenti e under 30 (come avviene talvolta anche in Europa), e molte orchestre offrono prove aperte, concerti commentati e incontri con i musicisti. Dal punto di vista istituzionale, poi, Shanghai ha investito con decisione nelle infrastrutture. La Shanghai Symphony Hall, inaugurata nel 2014, è diventata un riferimento internazionale per acustica e funzionalità, mentre nuovi spazi dedicati alla musica sono sorti nei distretti periferici, con l’obiettivo di decentralizzare l’offerta culturale. La musica classica dunque non rimane confinata al centro finanziario della città, ma accompagna l’espansione urbana, diventando parte dell’identità dei quartieri e della vita quotidiana.
All’interno di questo scenario, anche il rapporto con l’Occidente è cambiato radicalmente. Se fino a pochi anni fa le stagioni si reggevano soprattutto sulla presenza di direttori e solisti europei, oggi il flusso è bidirezionale. A Shanghai arrivano ancora grandi nomi internazionali, ma sempre più spesso sono i direttori e i solisti cinesi a essere invitati nei teatri di Berlino, Vienna o New York. La circolazione dei talenti è continua e contribuisce a ridefinire l’idea stessa di “tradizione”: non esiste più un centro immobile da imitare, ma una rete globale di scambi.
In questo contesto perciò, la musica classica perde progressivamente il suo statuto di reliquia europea e diventa un linguaggio pienamente contemporaneo. A Shanghai non si suona Beethoven per conservarlo, ma per interrogarlo. Qui Beethoven non è il padre fondatore di una civiltà musicale, ma un interlocutore. Le sue sinfonie vengono programmate accanto a opere contemporanee, a prime assolute, a lavori di compositori cinesi, senza il bisogno di proteggerle o sacralizzarle. Questo permette di porre domande: che cosa dice oggi l’idea di conflitto beethoveniana a una società che vive una modernizzazione accelerata? Come risuona l’eroismo della Terza o la tensione etica della Nona in un mondo globalizzato, tecnologico, instabile? Il repertorio occidentale viene quindi sottratto alla funzione identitaria e restituito alla sua funzione originaria: quella di musica che parla al proprio tempo. Beethoven, Mahler o altri tornano ad essere ciò che erano all’inizio: compositori radicali, scomodi, aperti, capaci di dialogare con il presente invece di rappresentare il passato.
Queste stagioni sinfoniche raccontano di fatto una società che vede nella musica un investimento culturale e simbolico. E mentre in Europa si discute su come rinnovare il pubblico e salvare istituzioni in difficoltà, in Cina si costruisce un modello diverso, fondato su educazione, accessibilità e sperimentazione. Non è una rivoluzione rumorosa, ma una trasformazione profonda, che agisce nel tempo lungo delle stagioni, dei programmi e delle abitudini d’ascolto. Osservare come vengono costruiti oggi i cartelloni sinfonici di Shanghai significa guardare, in anticipo, a una possibile traiettoria futura della musica classica globale. Forse, dunque, il dato più interessante non è il numero delle orchestre o dei concerti, ma il modo in cui il repertorio classico viene vissuto: non come eredità da difendere, ma come materia viva da plasmare. E Shanghai è uno dei luoghi in cui il sinfonismo del XXI secolo sta prendendo forma. Capire questa trasformazione significa capire come la musica classica, per sopravvivere, abbia smesso di guardare solo al proprio passato.
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