Andrea Incontri, direttore creativo di Benetton: «Un abito per vestire Mantova? Non le serve»
Mi racconta un po’ di sé? Come ha iniziato a pensare alla moda?
«Io ho sempre amato la moda, l’abbigliamento. La famiglia di mio nonno materno aveva una sartoria a Milano, quindi i concetti di qualità e il galateo dell’abito mi sono stati insegnati e mi sono sempre rimasti in testa. Crescendo ho poi sviluppato una grande passione per il design e l’architettura, anche se devo dire che non ho mai contemplato l’idea di frequentare una scuola di moda. La laurea in architettura mi è servita molto: mi ha insegnato la metodologia, la cura delle qualità dei dettagli, il modo di vestire gli spazi. Sono mondi che confluiscono nell’abito, c’è perfetta coerenza. Ho lavorato anche per una casa editrice, dove ho imparato a descrivere gli spazi di design. La svolta è stata la conoscenza di un consorzio di pellettieri toscani. Ricordo che a Scandicci sono entrato in contatto con artigiani che lavorano con sapienza e ho pensato a fare qualcosa di mio, di avviare una mia piccola collezione. Franca Sozzani ha visto il mio lavoro e mi ha chiesto di partecipare a Who’s on next. Ho vinto il concorso e da lì è partito il mio percorso professionale. Ho avuto visibilità e grandi occasioni con marchi di rilievo».
Immagino che il mondo della moda non sia proprio semplice. Come si affronta un mercato dove ci sono colossi di livello mondiale della storia secolare?
«Premetto. È il mondo che non è semplice, la moda vive di complessità come tanti altri ambiti diversi. Quando hai certe responsabilità, sono stato direttore creativo di Tod’s, non ti occupi solo di concepire una sfilata, ma di sviluppare una strategia di marchio. Vede, è molto importante l’identità del marchio. Certo esistono grandi colossi di servizio con prezzi democratici, ma Benetton ha unici brand e storytelling di comunicazione e immagine. Le intuizioni e le invenzioni sono state sempre incredibili. Io mi occupo di rispettare e rendere contemporanea l’identità di questo straordinario marchio. E quindi: identità di prodotto a prezzi accessibili. Quando mi chiedono qual è il punto di vista sul rapporto tra artigianato e industria, io dico che l’ industria è un mondo geniale che ha sempre come presupposto e come base l’essere umano. Le dirò di più: l’idea di produrre in modo seriale dei capi d’abbigliamento è poetica. L’artigianato desta più simpatia? È bello che si possa rendere un prodotto accessibile a tutti».
Quali sono i materiali a cui state pensando per il futuro? Le fibre naturali sono ancora convenienti e ottimali, oppure conviene utilizzare altro?
«Quando progetto è come se avessi davanti a me tante ricette. Sperimento molto fino ad arrivare a soluzioni che possono trovare risposta concreta tra un mese o due anni; sono progetti in divenire. Quanto alla sostenibilità, noto che è una parola spesso spesa con poco arbitrio. Perché? Perché per essere sostenibili non si dovrebbe più produrre. Ecco, io ad esempio non utilizzo pellami o pellicce. La mia volontà, e quella di Benetton, è il rispetto degli animali. Quanto alle fibre, c’è molta ricerca, sia su quelle naturali che di altro tipo. Con Benetton ho iniziato otto mesi fa, l’ azienda è molto grande, i dipendenti sono tantissimi. Benetton significa vite e famiglie. E il fatto che si mantenga solida una comunità così importante mi riempie di orgoglio. Sui materiali, tornando alla sua domanda, non ho punto di vista preciso. Benetton è un marchio che deve offrire uno spettro completo. Abbiamo un target allargato ma certo non è riferito a tutti, si lavora sulla nostra visione».
Dal punto di vista delle forme, che novità dobbiamo aspettarci nei prossimi anni? Intravede un cambiamento, magari per un necessario adattamento al nuovo clima e alle nuove esigenze di perenne collegamento?
«Lavorando sulla massa come grande valore, a me interessa dare risposte funzionali. Osservando come si muove la popolazione e viaggiando molto, si nota che la comodità, la funzionalità e la trasversalità sono valori fondamentali. Le funzioni d’uso troppo specifiche sono sempre meno, il vero business è l’abbigliamento che metto ogni giorno. Parliamo di divise sociali: è importante che ci sia cura per la manutenzione, la comodità e l’autenticità. Affrontiamo quesiti semplici: devo poter lavare a casa il mio capo d’abbigliamento. Aggiungo che lavoriamo sulla diversity, che è un valore aggiunto: ci confrontiamo sul non convenzionale, ci lavoriamo per trovare le giuste risposte».
La moda ha canoni di bellezza molto elevati. Benetton è un marchio che si rivolge ad un pubblico vastissimo. Come si lavora in questa prospettiva per creare una bellezza il più diffusa e internazionale possibile?
«Mi faccia dire che il tema della bellezza riguarda prima di tutto un progetto empatico di vicinanza. Perché la bellezza è opinabile, ci vogliono molta poesia, un approccio armonioso e spontaneo: la bellezza appartiene all’anima. Nella campagna pubblicitaria abbiamo scelto personalità diverse: un ragazzo giovane, una modella olandese, un ragazzo del Sud Africa. Hanno pelli diverse, età diverse. Non voglio creare uno stereotipo: voglio invece una storia legata armoniosamente alla mia idea di bellezza, in modo che questa possa corrispondere a tanti. Bellezza diffusa e solare: è questa mia visione di classicità estetica».
A proposito di bellezza. Cosa è bello, secondo lei? E cosa è brutto?
«Bello è lo spontaneo, il brutto quello che non è spontaneo. Il giudizio verso le cose è già un limite, ma certo l’autenticità è già un valore importante. L’abbigliamento è uno strumento che si aggiunge, ma non ti dà da solo la personalità. La vita è relazione ed empatia».
Immagino che lei viva a Milano. Quando si guarda intorno trova bellezza? La città è molto cambiata negli ultimi trent’anni, mi pare meno popolare e più selettiva. È d’accordo?
«La cosa più bella è che Milano offre l’opportunità di esprimersi in un percorso di vita e professionale. Mia madre mia portava spesso a Milano, la sua città natale. Una città che riesce ad accogliere e dare. A Milano si può trovare un riscatto che magari non hai trovato nel paese o nella città di nascita. Puoi essere quello che vuoi, non mi sono mai sentito respinto. La dimensione di Milano è molto discreta, si vive un’eleganza innata, con tanti giardini segreti. Se la conosci ha un suo linguaggio molto sottile; e io ho sempre trovato le risposte, amo conoscere le vite degli altri. Nemmeno agli inizi frequentavo solo amici di Mantova».
Parliamo un po’ di Mantova? Ci torna spesso? Cosa le piace della città? E cosa invece vorrebbe cambiare?
«Non ci torno spesso, non ho occasioni. Mantova è come una stagione della vita. Scappi dalla città piccola perché ad un certo punto hai voglia di vederti in un altro mondo. Oggi sono più contemplativo, ho avuto occasione di tornare a Mantova e devo dire che ho avuto un nuovo innamoramento, la città è meravigliosa e mi riconosco, respiro quel territorio e ne faccio parte. Ringrazio Mantova per l’educazione alla bellezza, la ringrazio per l’architettura. Non ho più un atteggiamento di conflitto, ora l’ho quasi idealizzata. Mi piace la campagna, il cibo è meraviglioso, ma proprio non sopporto la nebbia»
Se lei dovesse creare un abito per Mantova, che colori e che forma avrebbe?
«Mantova è già vestita, non ha bisogno che la vesta io, è già così bella che potrei rovinare il suo aspetto, è bella nella sua nudità».
Un’ultima cosa. Lei è passato dal suo marchio a brand internazionali, fino a Benetton. Come si affronta un cambiamento simile?
«Per la verità io già facevo anche consulenze ed è stato un bellissimo esercizio. Ho imparato quali sono i desiderata e il business. Amo avere clienti diversi e più opportunità. Nel momento in cui sei in un marchio importante vivi all’unisono. Ma devo precisare che nel mio percorso, un percorso che giudico naturale, non lavoro mai da solo. I ringraziamenti vanno fatti a tutti, io sono tassello e posso avere grandi responsabilità. Ma il lavoro di squadra è vincente».
- CHI È
Mantovano, nato nel 1971, Andrea Incontri è stato direttore creativo di Tod’s e oggi lo è di Benetton. Si è laureato in architettura al Politecnico di Milano. La famiglia del nonno materno avevano una sartoria a Milano, «quindi - spiega Incontri - i concetti di qualità e il galateo dell’abito mi sono stati insegnati e mi sono sempre rimasti in testa. Crescendo ho sviluppato una grande passione per il design e l’architettura, devo dire che non ho mai contemplato l’idea di frequentare una scuola di moda». Ha lavorato anche per una casa editrice.