Covid, un dicembre nero per il lavoro nel Veneziano
VENEZIA. È stato dicembre il mese più nero per la pandemia nella nostra provincia. Trentuno giorni che hanno visto il rincorrersi dei numeri: dei contagi, dei ricoveri ospedalieri, dei decessi. Per questo non sorprende che, tra le tante voci che aiutano a costruire il quadro, vi siano anche le denunce di infortunio sul lavoro da Covid. Sono 1.912 i veneziani che, nel 2020, hanno denunciato all’Inail di avere contratto l’infezione proprio mentre stavano lavorando.
Del totale delle denunce pervenute, 669 sono relative al solo mese di dicembre. Il profilo disegnato appare piuttosto lineare: per tre quarti, si tratta di donne; il 43 per cento ha tra i 50 e i 64 anni e il 35 per cento dai 35 ai 49 anni. Per la maggior parte sono persone che lavorano in ambito sanitario: soprattutto infermieri e, a seguire, operatori socio-sanitari, operatori socio-assistenziali, poi medici. I numeri appaiono piuttosto in linea con quelli regionali, nel quadro delle 8.510 denunce pervenute, 104.328 in Italia.
Tutti denunciano di avere contratto il Covid mentre stavano lavorando. La cornice più fertile è quella degli ospedali. D’altra parte, l’Usl 3 ha dichiarato che sono 514 i suoi dipendenti risultati positivi al Covid nel corso del 2020; ma si tratta di un dato parziale, che non tiene in considerazione le ultime settimane dell’anno.
«L’impasse è dovuta al fatto che il datore di lavoro non è autorizzato a comunicare ai colleghi il nominativo di un dipendente risultato positivo» spiega Irene Pudda, avvocato di Rödl & Partner, esperta di privacy. «L’azienda è tenuta a fornire all’Agenzia di tutela della salute le informazioni necessarie perché quest’ultima possa assolvere ai compiti previsti dalla normativa emergenziale e, contemporaneamente, ha facoltà di domandare ai possibili contatti stretti di lasciare cautelativamente i locali aziendali, ma è l’Ats che ha la potestà di contattare i lavoratori per poi applicare le opportune misure di quarantena».
Insomma, l’iter appare piuttosto complesso, essendo molteplici gli interessi da tutelare: la salute pubblica, certo, ma anche la privacy. In sintesi, il diritto di una persona positiva a non vedere spiattellato il suo stato di salute. Con ripercussioni sul piano organizzativo, quando i contagi avvengono negli ambienti di lavoro.
«Purtroppo non si può fare diversamente» Pudda. «La procedura tutela la privacy del lavoratore positivo al coronavirus. Come è facile immaginare, procedere alla disinfezione della postazione di lavoro, delle attrezzature utilizzate e degli spazi comuni frequentati dal dipendente, domandare ai possibili contatti stretti di lasciare cautelativamente i locali aziendali, nonché isolare gli uffici in cui il dipendente ha lavorato garantendone allo stesso tempo la totale riservatezza è di difficile applicazione». —
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