Saviano: “Così la mia generazione si scoprì indifesa senza di lui”
«Falcone e Borsellino come padri costituenti. Troppa disattenzione contro le mafie»
Roberto Saviano, ricorda dov’era il 23 maggio del 1992 alle 17.58?
«Perfettamente. Davanti alla televisione. Vedo mia mamma che alza il volume mentre mia zia si prende il volto tra le mani. Ho 13 anni e non capisco che cosa sta succedendo, ma sento un forte stato di ansia».
La notizia della morte di Falcone e della scorta. Il cratere di Capaci. Sono immagini di guerra.
«Lo sono. E mi spaventano. Io e mio fratello, che ha quattro anni meno di me, rimaniamo immobili. Nel palazzo si sentono soltanto le voci che arrivavano dalla tv. Quella storia cambia tutto, specie nel meridiano dove sono cresciuto io».
In che modo?
«In molti modi. Quel giorno tutti sono preoccupati. La nostra era una terra dove ci si ammazzava di continuo. La reazione non è: guarda che cosa è successo. Ma: e adesso che cosa succede a noi?».
Saviano, perché un romanzo su Falcone?
«Perché la figura di Falcone mi ha insegnato a leggere la semantica del potere quanto Max Weber. Lui e Borsellino sono come i padri costituenti. Ci hanno permesso di capire il capitalismo criminale. Dal Sudafrica a Singapore».
Ebbe senso il loro sacrificio?
«Ovviamente sì, per i motivi che ho spiegato. Al netto di questo, non riesco a dire facilmente che ciò che è stato fatto compensa il sacrificio».
A che cosa serve ricordare Capaci 30 anni dopo?
«A tirare le somme. A raccontare al di là delle prudenze e delle paure quello che è successo. Si tende a ricordare con facilità l’operazione militare di Cosa nostra e a dimenticare l’isolamento in cui finì Falcone. E l’odio che gran parte del giornalismo e dei suoi colleghi, non tutti naturalmente, gli riservarono, permettendo a Cosa Nostra di considerarlo un uomo all’angolo».
Alfredo Morvillo, fratello di Francesca, ha detto: a 30 anni dalle stragi, la Sicilia è in mano a condannati per mafia.
«Cosa nostra è molto cambiata, ma è un allarme che mi sento di sostenere. Cioè, non se ne parla più. Non c’è più attenzione. Eppure ‘ndrangheta, Camorra, Cosa nostra e mafia garganica sono l’avanguardia dell’economia del Paese. Dopo il Covid si stanno mangiando una a una le attività in crisi. Comprano tutto. Dobbiamo fermare questa nostra forma di disattenzione».
Tra una disattenzione e l’altra Totò Cuffaro e Marcello Dell’Utri sono tornati a fare campagna elettorale in Sicilia.
«Non ne sono stupito. Se continua con questa indifferenza, con pochi commenti sdegnosi, Cuffaro e Dell’Utri hanno buone probabilità di vincere le elezioni».
Esagera?
«Provo a raccontarla così: io sono cresciuto in terra di mafia e so che la cultura mafiosa ti porta a giudicare una persona non per quello che ha fatto, ma per quello che ha fatto per te».
Non è bravo il politico che costruisce ospedali, ma quello che assume tuo figlio.
«Esattamente questo. Non è un meccanismo mostruoso, ma un meccanismo che si radica perché la politica sana non riesce a dare risposte. E allora chi voterà Cuffaro dirà: io me ne frego di quello che ha fatto, se mi dà la licenza per la piscina comunale. Perché dovrei votare per uno puro e pulito che però non fa nulla?».
Anche Falcone rompe un sistema economico in cui guadagnavano tutti. I criminali, i giudici, la politica. Lo fa perché è matto?
«Falcone è il contrario di un matto. E segue le orme dei suoi maestri. Il primo che ammazzano è Pietro Scaglione, a Gaetano Costa gli sparano alla schiena. A quel punto Cesare Terranova decide di tornare da Roma a Palermo. Lo fanno fuori. Allora arriva Rocco Chinnici e ammazzano anche lui. Falcone prende il suo posto e fa una sorta di upgrade. Vede un orizzonte di cambiamento reale, la possibilità di dare la spallata, di rinnovare tutto».
Glielo impediscono.
«Glielo impediscono. Eppure lui fino alla fine ha l’ingenuità di sperare di diventare procuratore nazionale».
Dopo l’attentato all’Addaura, lo accusano di essersi messo da solo il tritolo sotto casa.
«E lui risponde: in questo Paese se il tritolo non ti fa saltare per aria, significa che il colpevole sei tu».
Dice anche: dietro questa storia ci sono «menti raffinatissime». Quali?
«Probabilmente i servizi deviati, per cominciare. Anche se quando dico servizi deviati mi viene in mente il volto di Raffaele Cutolo che spiega: basta con questi servizi deviati, chiamateli servizi e punto. Ovviamente è molto più complicato».
Altri?
«Difficile dirlo con precisione. Falcone viene isolato dal giornalismo italiano quasi all’unanimità, soprattutto nell’ultima fase, quando accetta l’incarico di Martelli».
Una congiura?
«No. Non è che fossero tutti d’accordo con Cosa nostra, semplicemente, in una sorta di eterogenesi dei fini, certi comportamenti critici finirono per agevolare i piani di quelle “menti raffinatissime” di cui parlava Falcone».
Dopo l’Addaura Andreotti lo chiamò per la prima volta. Falcone commentò: in genere i primi a chiamarti dopo un attentato sono i mandanti.
«Questa è una storia particolarissima. Andreotti è stato prescritto al processo perché laddove ci sono le prove dei rapporti con Cosa nostra non c’è più la possibilità di condannarlo. Ma la corrente di Andreotti, che in Sicilia faceva capo a Salvo Lima, era nemica dei Corleonesi. E ai Palermitani poteva fare comodo qualcuno che li combattesse. Avevano alzato troppo il tiro».
La cattiveria disumana di Riina.
«Che ad Andreotti piaceva poco. Poi saranno proprio i Corleonesi ad ammazzare Lima».
Anche l’idea del maxiprocesso scatenò polemiche. La responsabilità penale è personale. Si disse che era assurdo e illegittimo giudicare un mucchio di persone tutte assieme.
«Qualcuno lo fece in buona fede, come i Radicali, che temevano le forzature giuridiche e in effetti segnalavano un rischio che oggi è ancora presente. In quel caso, però, avevano torto».
Perché?
«Il maxiprocesso fu necessario per dimostrare al mondo per la prima volta che quella organizzazione era una. E fu fondamentale farlo così. I boss negavano l’esistenza della mafia. Michele Greco citò Il Padrino per dire che erano i film di violenza e di pornografia a costruire quell’idea assurda».
Dal Padrino a Gomorra, a lei è successa un po’ la stessa cosa?
«Faccio sempre questo esempio. È come se a qualcuno che entra in una stanza buia e accende la luce scoprendo un cadavere dicessero: ma tu provi gusto a far vedere i morti? A me è successo. Il mondo al contrario. Ma io la penso come James Baldwin: se è vero che raccontare qualcosa non fa sì che quel qualcosa cambi, è anche vero che tutto ciò che è cambiato lo ha fatto perché qualcuno lo ha raccontato».
«Saviano merda», lo scrivono ancora sui muri di Scampia?
«Sì. Ma contro i boss mai nulla. Anche se Scampia si è trasformata».
Lei vive sotto scorta da 15 anni. Che Paese è quello in cui persone perbene non possono girare liberamente?
«Premesso che non ne posso più della scorta e che mi metto all’ombra dei maestri per cercare di capire come hanno fatto a continuare a sorridere, aggiungo che un Paese dove le persone perbene hanno bisogno della scorta non è normale. Ma è stato proprio il sistema di protezione a disarticolare la strategia militare delle organizzazioni mafiose, mettendo fine all’automatismo: quello è un nemico, quindi lo uccidiamo. Avevo 26 anni quando mi hanno dato la scorta. Oggi ne ho quasi 43 tre e sto studiano una via d’uscita».
Esiste?
«Esiste».
Il suo libro si intitola Solo è il coraggio. Cos’è la solitudine per Falcone?
«La sensazione di una vita mancata, che lo spinge a non avere figli dicendo: non si mettono al mondo orfani».
In verità è come se di figli ne avesse moltissimi.
«Io tra loro».