Cinema al cento per 100, ecco le nostre recensioni dei film in sala dal 25 aprile
foto da Quotidiani locali
CHALLENGERS
Regia: Luca Guadagnino
Cast: Zendaya, Mike Faist, Josh O’Connor
Durata: 131’
Stiamo parlando di tennis? Sì. Forse. No. Luca Guadagnino, con “Challengers” (doveva essere il film di apertura della scorsa Mostra del Cinema … peccato) serve a 220 all’ora una storia d’amore, di amicizia, tradimenti e rimpianti camuffata da epopea sportiva, scegliendo, peraltro, la più anti-spettacolare tra tutte le discipline da portare sul grande schermo. Ma anche la più adatta.
Perché una partita di tennis è, potenzialmente, infinita. Ma, soprattutto, i suoi rituali diventano per Guadagnino l’occasione per mettere in scena un inedito Sabba erotico, con i corpi scolpiti degli atleti, i torsi nudi al cambio di campo, sudori, umori, gemiti primitivi, pantaloncini aderenti, racchette sfoderate dalle loro guaine come falli in un incontro di sguardi, di sfida e di desiderio inappagato, fermato solo da una sottile rete a metà campo che impedisce ogni contatto.
Una partita e, quindi, una relazione, che per Art (Mike Faist) e Patrick (Josh O’Connor), ghiaccio e fuoco, comincia da ragazzini quando, insieme, frequentavano la stessa accademia di tennis, vincevano tornei di doppio juniores e si affacciavano, con diverse prospettive, sul mondo dei professionisti (il primo con un gioco più controllato e muscolare, il secondo più istintivo, meno addomesticabile e sporco come il suo servizio che risulterà “decisivo”).
L’incontro con Tashi Duncan (Zendaya), tennista di enorme talento, cambia tutto: oggetto del desiderio per entrambi (nella sequenza memorabile della stanza di albergo con un crescendo di tensione sessuale) ma, soprattutto, enzima di quella relazione omo-erotica latente, Tashi finisce per diventare la moglie di Art e la sua allenatrice (dopo che un infortunio al ginocchio le ha stroncato la carriera), trasformandolo in un giocatore da slam ma, anche, in una pedina da muovere a proprio piacimento.
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Mentre Patrick, che di Tashi era stato il primo focoso compagno, si perde nelle vie tortuose del circuito ATP, tra algoritmi che determinano ranking incalcolabili e qualificazioni spesso sfortunate.
Tredici anni dopo quel primo incontro in hotel, i vertici di quel triangolo amoroso sono destinati a toccarsi ancora in occasione di un torneo challenger (una competizione minore) dove Art (in cerca di una forma migliore prima degli US Open) e Patrick (che punta al proprio rilancio sportivo) si ritrovano in finale davanti agli occhi di Tashi: la partita, letteralmente, della vita per tutti e tre.
Luca Guadagnino dimostra, una volta ancora, di essere uno dei pochissimi registi italiani con una visione, una estetica e una sensibilità internazionali.
Non è questione di cast, ma di una idea di cinema vorace (come in cannibali di “Bones And All”), orgiastica (come nella sequenza finale di “Suspiria”), capace di cambiare continuamente ritmo (dal dramma, al melò, al – finto – film sportivo), contaminandosi con la musica techno di Trent Reznor e Atticus Ross e con struggenti ballate romantiche, tra ralenti e improvvise accelerazioni, usando tutto il campionario dei colpi del tennis mentre la macchina da presa viaggia avanti e indietro nel tempo: smorzate, palle lunghe, pallonetti, volley, passanti, colpi sotto le gambe e, soprattutto smash, come quello finale (soluzione geniale, l’unica possibile per chiudere la partita).
Con soggettive arditissime (come quella della pallina frustata dalle racchette di Art e Patrick) per arrivare, infine, lì dove Luca Guadagnino vuole sempre giungere: al tema di una giovinezza spensierata e pigra (come quella di Elio/Timothée Chalamet in “Chiamami col tuo nome) colta un attimo prima di un evento traumatico che, qui, ha gli occhi di Tashi (che poi è lo sguardo dello stesso regista) e che, non per caso,
Guadagnino prova a congelare in una partita infinita. Se per Woody Allen il nastro della rete marcava l’abisso tra innocenza e colpevolezza, in “Challengers” l’interruzione del gioco vuol dire, da ultimo, perdere la giovinezza: diventare un ex giocatore di tennis, essere ricordato come una ex promessa, o prendere consapevolezza del proprio ruolo di disillusa allenatrice, terzo incomodo di e per una vita. (Marco Contino)
Voto: 7,5
***
CONFIDENZA
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Regia: Daniele Luchetti
Cast: Elio Germano, Federica Rosellini, Vittoria Puccini, Pilar Fogliati, Isabella Ferrari
Durata: 136’
Esistono dei segreti che in amore, o per amicizia, val la pena di mantenere tali o che si possono o devono dire comunque? L’ultimo film di Daniele Luchetti (“Il portaborse”, “Mio fratello è figlio unico”, “Lacci”) riprende un romanzo di Domenico Starnone, autore caro a Luchetti sin dai tempi de “La scuola” (1995), per raccontare, con un linguaggio che spazia dal surreale al thriller, la vicenda di Pietro Vella, giovane professore di lettere di un liceo di periferia che, rivedendola dopo la maturità, si innamora di una sua ex studentessa, Teresa Quadraro, donna impegnativa e morbida a un tempo, che una sera lo costringe a una confidenza che lo perseguiterà tutta la vita.
Perché i due poi si lasceranno, diventando entrambi famosi – Pietro come pedagogo della “didattica degli affetti”, Teresa come matematica di fama mondiale, al MIT di Boston – ma il rischio di un ritorno, di una “pubblicazione” del segreto, torna ciclicamente nella mente di Pietro che, tra i due, è quello che rischia di più. Non sappiamo di che segreto si tratti, probabilmente una violenza su una donna una sera, all’uscita di un pub, magari ubriaco, e nemmeno interessa al regista.
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Quella che preme a Luchetti è ancora una volta sottolineare d’un lato che ci sono confidenze e atti della nostra vita di cui ci si può o deve vergognare e che è meglio lasciare in un angolo, dall’altro che la crisi del maschio alfa è forte e comune a ogni latitudine.
A differenza di altri thriller made in Usa, però, qui non c’è un maschio perseguitato da una virago un po’ pazza: la follia, la paranoia è tutta dentro la psiche di Pietro, e il ruolo di Teresa, ampliato nel film rispetto al libro dalla sceneggiatura di Francesco Piccolo, qui assume un’importanza maggiore, a sottolineare comunque un amore folle, perduto, ma profondo, sincero, interrotto solo dalle follie di entrambi, o forse solo di Pietro.
Le convenzioni borghesi - la famiglia, il successo, l’immagine pubblica amata del professore – cozzano con il dissidio interiore, in una divisione esistenziale che lo porta a pensare più volte ad atti inconsulti e certo poco affettuosi, verso di sé e verso gli altri.
In questo andare avanti e indietro nel limbo del surreale, Luchetti mostra qualche limite non tanto narrativo quanto estetico, ma tutta l’operazione in sé è dignitosa e matura, forse la più coerente, assieme a “Il portaborse”, tra le opere del regista caro a Nanni Moretti. (Michele Gottardi)
Voto: 6,5