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L’intervista. Rocco Buttiglione: «La politica? È come il sesso: bisogna imparare con l’esperienza»

L’addio alla politica attiva ha permesso a Rocco Buttiglione di riscoprire l’antica passione per l’insegnamento, una missione tout court che va ben oltre il rapporto frontale con gli studenti. Il suo è uno dei volti simbolo della militanza cattolica nelle istituzioni: l’uomo che, nel 1995, ha condotto l’ala non progressista del Partito popolare italiano (l’ex […]

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L’addio alla politica attiva ha permesso a Rocco Buttiglione di riscoprire l’antica passione per l’insegnamento, una missione tout court che va ben oltre il rapporto frontale con gli studenti. Il suo è uno dei volti simbolo della militanza cattolica nelle istituzioni: l’uomo che, nel 1995, ha condotto l’ala non progressista del Partito popolare italiano (l’ex Dc) all’interno del centrodestra. Filosofo di professione, è stato allievo di Augusto Del Noce. Tra le opere più citate c’è sicuramente la monografia sul tomismo-fenomenologico di Karol Wojtyla. Un pensiero, quello del futuro pontefice, proiettato alla comprensione integrale delle relazioni umane passando dalla sessualità. Una lezione che, evidentemente, Buttiglione non ha mai abbandonato: tant’è che di recente ha fatto rumore il particolare attivismo sul social Quora e i tanti consigli dispensati ai più giovani su sesso, amore e consapevolezza di sé.

Professore, dall’attivismo politico alla militanza social, che evoluzione è?

«Ogni tanto, è vero, scrivo su Quora, un luogo dove tutti possono fare domande e tutti rispondere. Tanti anni fa mi chiesero di farlo e, alla fine, ci ho preso gusto».

Un ex ministro che scrive sui social di sentimenti è di per sé un fatto curioso, non crede?

«In genere non do consigli ai ragazzi innamorati, non faccio la posta del cuore. Tento semmai di spiegare che, prima di formulare un pensiero in Rete, bisognerebbe controllare le fonti, verificare se un fatto è vero o no, capire se l’argomento affrontato è dotato di coerenza logica. Insomma, do sfogo alla mia insopprimibile vocazione didattica».

Buttiglione, prova a fare il buon maestro?

«Ogni tanto, come tutti i professori, mi capita di dare consigli. Vede, ultimamente leggo molti post di giovani maschi che ce l’hanno con le donne e ciò mi dà da pensare».

 Come spiega questo fenomeno?

«Con il fatto che è caduta l’idea che esista una morale sessuale. Il sesso è una cosa affascinante, ma anche pericolosa. E la morale altro non è che il libretto d’istruzioni per l’uso. Anche la dinamite, senza le dovute cautele, può esplodere in mano. Sto notando che i giovani maschi hanno paura della sessualità. Anche le giovani femmine, ma i maschi sono in maggioranza. E così si tirano indietro, svilendo le donne».

Cosa consiglia loro?

«Prima di tutto: bisogna imparare a essere amici delle donne, bisogna saperle ascoltare. Non vanno considerate come soggetti da portare a letto. Se sai esserle amico sarai anche in grado di vivere una relazione sana. Così s’impara a entrare in quell’universo affascinante che è la femminilità».

Dopo tante battaglie femministe, è paradossale dover ripartire dalla buona educazione, non trova?

«Il problema è che in tanti, oggi, sono figli unici. Avere delle sorelle è importante, perché consente familiarità con il mondo femminile. Diversamente si tende a sovrapporre l’aspetto sessuale alla dimensione umana».

Professore, lei sta per entrare nell’aula magna di un Ateneo – quello di Catania – che nelle scorse settimane ha visto un convegno sulla disforia di genere nei minori interrotto dagli attivisti di sinistra: che sta succedendo nelle nostre università?

«Stanno succedendo molte cose. Ma andiamo con ordine. La prima cosa da dire è sulla disforia di genere. Dopo aver somministrato ormoni a tanti ragazzini, soprattutto nei paesi anglosassoni, perché ritenevano di dover cambiare sesso, questi stessi si sono rivolti ai tribunali chiedendo risarcimenti. Per questo motivo il governo britannico è stato invitato a restringere severamente i criteri di accesso alle terapie».

Tutto ciò cosa ha provocato?

«Che si è parlato inevitabilmente di omofobia e bigottismo. Il punto è però un altro: che anche il Guardian, il più importante quotidiano liberal del Regno Unito, ha riconosciuto come negli anni siano stati commessi degli abusi enormi».

Come giudica le contestazioni degli studenti italiani?

«I giovani non sono contenti perché non riescono a trovare una proposta educativa convincente. Mancano loro esempi e strumenti critici. Questo li porta ad assecondare chi, per primo, offre loro una risposta ai desideri del loro cuore. Ma il problema non riguarda soltanto i giovani».

E chi riguarda?

«C’è un divorzio tra classi dirigenti e popolo. Le prime hanno la cultura della complessità, ma la usano per sé stesse. Per questo motivo il popolo non si fida più, finendo con l’andare dietro al primo imbroglione che offre soluzioni a buon mercato».

Questo si traduce nell’attuale crisi delle democrazie rappresentative?

«La democrazia è sicuramente in crisi. La democrazia ha bisogno di verità. Nel frattempo, però, si è fatta strada l’idea che bisogna offrire narrazioni affascinanti ma non per questo vere. E su quelle, ahinoi, non si può costruire nulla».

Qual è l’idea attualmente dominante?

«Che le convinzioni forti siano contrarie alla democrazia e che il relativismo sia il suo unico e vero alleato. Ma il relativismo altro non è che la possibilità di costruire a tavolino una narrazione che sia quanto più utile al proprio interesse senza la preoccupazione di una verifica critica. Nessuno di noi ha la verità assoluta in tasca, ma ad essa possiamo avvicinarci con metodo. Le università non insegnano più nulla di tutto ciò».

Per questo gli atenei sono diventati luoghi di scontro?

«Nelle università dovrebbero insegnarti a capire la vita, il mondo degli uomini. Tutto ciò si è perso. La politica è come il sesso: bisogna imparare con l’esperienza e con la riflessione sistematica e critica su di essa. Ma ai giovani nessuno glielo dice e così tendono a crearsi dei nemici a tavolino. Così arriva il primo che dice che i nemici sono gli ebrei e tutti, di conseguenza, si scagliano contro gli ebrei. Ma non può funzionare così».

C’è stata la levata di scudi anche in merito alla proposta di rendere effettiva in tutta le sue parti la legge sull’aborto, finanziando l’attività dei consultori. Come interpreta tutto ciò?

«Succede perché non si riesce ad affrontare il discorso in maniera non ideologica. Manca il confronto tra vissuti diversi. Ognuno mantiene il suo punto di vista e lo assolutizza. Ma guardo anche al mondo cattolico, la mia parte, perché c’è da fare una critica».

Quale critica intende avanzare?

«Se dall’altra parte non c’è la capacità di vedere che nel feto c’è vita; nei cattolici è mancata una riflessione approfondita sul vissuto della donna incinta, che non si sente tutelata e che ha paura perché identifica nella gravidanza una intollerabile offesa alla propria libertà».

Professore, cosa bisognerebbe offrire alle donne?

«È necessario che vi sia una politica che rafforzi l’alleanza tra la madre e il bambino, che la aiuti ad accoglierlo. Questo significa educazione, assistenza psicologica e sostegno economico».

In Francia l’aborto è stato innalzato a diritto fondamentale, mentre l’Europarlamento, in maniera non vincolante, si è espresso nella medesima direzione: che segnali sono?

«È una modalità che asfalta la complessità di un fatto, perché assolutizza la posizione della donna che non vuole un figlio. Quando si parla di aborto, ricordiamolo, ci sono più istanze da tenere in considerazione e non una sola».

Rimanendo all’Europa, c’è l’impressione che in occasione dello scoppio di due guerre, Ucraina e Medio Oriente, l’Unione non sia stata in grado di far pesare le ragioni della pace: lei di questo avviso?

«Intanto, dovremmo andare in pellegrinaggio dalla Madonna e ringraziarla perché l’Ucraina non è caduta nelle mani dei russi: il popolo ucraino esiste e ha diritto a difendere la propria libertà. Credo però che, sin dallo scoppio della guerra, sarebbe stato necessario andare a parlare con Putin, perché questa è una guerra che non può vincere nessuno».

Perché aprire un dialogo con la Russia?

«Perché continueremo ad avere controffensive russe a cui seguiranno controffensive ucraine, ma nel frattempo continueremo a distruggere la vita delle persone. E, alla fine, dovremo comunque trattare. Meglio farlo subito!»

Lei ritiene che una trattativa potesse essere avviata già nelle prime fasi del conflitto?

«Molti governi europei, compreso quello italiano, erano d’accordo. Ma questa linea non è passata per ragioni di politica interna americana e per il comportamento irresponsabile di Boris Jonson. Oggi siamo ancora lì, impantanati. La spinta dei russi, nonostante l’avanzata di questi giorni, si fermerà; gli ucraini, invece, grazie ai rifornimenti degli Stati Uniti, riprenderanno qualche villaggio, ma non potranno fare più di tanto. L’unico che finora ha parlato con saggezza è stato il Papa, ma non è stato ascoltato».

Che ruolo potrà ancora giocare l’Europa?

«L’Europa non ha visione e gli Stati Uniti neanche. La vita di milioni di essere umani è subordinata a calcoli di politica interna per guadagnare qualche voto in più alle prossime elezioni. Tutto ciò avviene sulla scorta di narrazioni indipendenti dalla realtà».

A quali calcoli si riferisce?

«Alle elezioni di mid-term Biden voleva accreditarsi quale vincitore, da capo guerriero. E gli è andata anche bene, perché ha perso ma non come si pronosticava».

E i calcoli di Putin?

«Devo dire che sta facendo una cosa interessante: ha chiesto di aprire un dialogo proprio ora che è in vantaggio. Avremmo dovuto farlo noi quando lo eravamo, ma non è stato fatto. Andiamo a trattare, dunque. Anche se forse non trarremo un ragno dal buco, ma ne varrà la pena».

È ottimista circa una soluzione a breve della crisi in Ucraina?

«Papa Francesco, una volta, mi ha detto che la speranza non è un superficiale ottimismo, ma è un’àncora che ti consente di resistere alla corrente del mare. La mia non è una speranza utopica, ma è visione fondata sulla realtà».

Quale realtà?

«Che questa guerra sia esplosa per uno sbaglio, per il calcolo errato di entrambe le parti. A Putin ha fatto sicuramente un sacco di danno alla Russia e, se trovasse un modo per non perdere la faccia, ne uscirebbe volentieri». 

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