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Quanto conta davvero la Corte penale internazionale (poco)

Se lo aspettavano, ma si dicono comunque sconcertati e oltraggiati per essere stati inclusi nel club dei «mostri» ovvero l’elenco dei criminali di guerra dell’Aja. La richiesta di arresto comminata dalla procura della Corte penale internazionale contro il primo ministro di Israele, Benjamin Netanyahu, e contro il suo ministro della Difesa, Yoav Gallant, è un fatto politico dirompente nello scenario internazionale prima ancora che un atto formale.

Già, perché se da un lato quel mandato non può nei fatti essere eseguito (vedremo più avanti perché), dall’altro la sostanza del provvedimento è squisitamente un missile teleguidato contro l’attuale compagine del governo di Gerusalemme e non già il primo tassello di un procedimento giudiziario ad personam.

Su quest’ultimo punto, è bene comunque precisare che la Corte penale internazionale – diversamente dalla Corte internazionale di giustizia, che ha sede sempre all’Aja – esercita il proprio potere giurisdizionale sulle persone fisiche e non invece sugli Stati nazionali, in modo complementare alla giurisdizione penale di questi ultimi. La sua competenza - ed è qui il sale della questione - è relativa ai crimini più efferati di questo mondo: genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra, crimini di aggressione.

In punta di diritto internazionale, quell’atto inviato a Gerusalemme equipara oggi il leader di un Paese democratico come Bibi Netanyahu a un qualsiasi terrorista (anche molti capi di Hamas hanno ricevuto lo stesso avviso). Certo, il premier è in «buona» compagnia: fanno parte del club anche i boia dell’ex Jugoslavia (Milosevic, Karadzic e Mladic); i massacratori dei Tutsi in Ruanda. E capi di Stato o di governo del calibro di Vladimir Putin e Bashar Al Assad, per dire.

Con la differenza che né Putin né tantomeno il satrapo Assad guidano istituzioni similmente democratiche (con il russo che macella civili in Ucraina e il secondo che li stermina con il gas). Netanyahu invece sì. Ed è la prima volta che un leader occidentale riceve un simile provvedimento. Della bontà del quale, peraltro, il procuratore capo della Corte penale internazionale, il britannico Karim Ahmad Khan, si dice più che certo: «Accetto solo il giudizio del giudice, di Dio e della Storia» è il pensiero netto del magistrato.

I poteri reali della Corte

Sia come sia, per il premer israeliano al momento poco cambia: attaccato su tutti i fronti, non solo figurativamente, sa bene che i suoi nemici superano di gran lunga gli amici, anche (forse soprattutto) in casa propria. E questo già da lungo tempo. È da ritenersi colpevole? Lo deciderà il Tribunale. Ma sarebbe ingenuo pensare che il provvedimento sia del tutto slegato all’ultimatum che Bibi Netanyahu ha ricevuto dal generale Benny Gantz, che oggi condivide con lui il gabinetto di guerra.

Gantz, infatti, ha appena dichiarato in una conferenza stampa drammatica che «entro l’8 giugno» pretende un piano d’azione su Gaza in sei punti, che spieghi come riportare a casa gli ostaggi, come riuscire a cancellare Hamas e come smilitarizzare la Striscia. Inoltre, vuole una tavola rotonda composta da Stati Uniti, Unione Europea, Paesi arabi e rappresentanti palestinesi, che getti le basi per un futuro a Gaza alternativo all’occupazione israeliana (ma anche ad Hamas e ad Al Fatah).

Dopo questa tegola domestica, per Netanyahu si aggiunge adesso l’onta persecutoria della legge internazionale, che vorrebbe essere il proverbiale colpo del KO per il premier in carica. Ma è più probabile che questo colpo non vada a segno. E il perché dovrebbe già essere chiaro a molti, considerato che il collega Vladimir Putin dorme sonni tranquilli da quel 17 marzo 2023, quando a sua volta ha ricevuto un mandato di arresto con l’accusa di deportazione. Dopo aver fatto spallucce, Putin ha continuato a massacrare civili e bombardare le città ucraine senza temere che qualche zelante ufficiale giungesse ad arrestarlo.

Questo perché la Corte non esercita giurisdizione nei Paesi non firmatari dello Statuto: significa che gli Stati che non aderiscono allo Statuto di Roma (l’atto fondativo della Corte) possono sottrarre i propri cittadini, indagati o condannati che siano, dalle grinfie della legge internazionale. E guarda caso né la Russia né l’Ucraina, né gli Stati Uniti o la Cina, e nemmeno Israele lo hanno firmato. O meglio: Israele ha firmato, ma poi non ha ratificato la convenzione.

Certo, d’ora in avanti se Putin o Netanyahu sbarcassero in Italia, la procura di Roma dovrebbe inviare i Carabinieri per arrestarli e spedirli in Olanda per rispondere delle accuse di fronte al giudice internazionale. Ma Putin come Netanyahu al momento le vacanze non possono proprio permettersele: sono troppo coinvolti nelle due grandi guerre che segnano la nostra epoca; inoltre, hanno ragione di temere che qualcuno possa sottrarre loro il trono su cui siedono. Dunque, finché restano al potere e non varcano i confini dei rispettivi Paesi, possono permettersi di infischiarsene della Corte dell’Aja, senza dover neanche impensierirsi nel dimostrare che le accuse contro di loro sono infondate.

Infatti, se è vero che funzioni e poteri della Corte si applicano sul territorio di qualsiasi Stato, anche non firmatario, affinché la sua giurisdizione abbia reale efficacia quello stesso Stato deve averne fatta richiesta. Siamo dunque allo «stallo alla messicana», quella situazione paradossale per cui ci si tiene sotto tiro a vicenda con delle armi, in modo che nessuno possa attaccare senza essere a propria volta attaccato. Un po’ come al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, di cui la Corte è figlia: basta il veto di un solo Paese membro e ogni imputazione decade.

Difatti, anche la Corte penale internazionale è stata pensata e voluta dall’Assemblea generale dell’Onu quando, nella Convenzione per la prevenzione e la punizione dei crimini di genocidio (art. 6 della risoluzione n. 260), aveva previsto la possibilità per gli Stati di deferire i giudizi sui crimini di genocidio a un Tribunale internazionale appositamente costituito. Che è appunto la Corte penale per i singoli e la Corte di giustizia per le entità statuali.

È stato il Trattato di Roma nel 1998 ad aver poi formalmente dato vita al Tribunale penale Internazionale, di cui è depositario il Segretario generale delle Nazioni Unite. Mentre però all’Onu oggi aderiscono 193 Paesi, ad aver adottato lo Statuto di Roma sono soltanto 123 Paesi. E in ogni caso, è anche la mancanza di una polizia giudiziaria che esegua i mandati di arresto a rendere quasi nulli i poteri della Corte.

Se il problema è solo rimandato

Al netto di quanto sinora sostenuto, come suggerisce l’avvocato esperto di gestione di conflitti, Fabio Valerini, «il valore di questi atti non è però esattamente nullo, perché se lo fosse ciò significherebbe che sono nulle le stesse istituzioni internazionali che invece sono state progettate proprio per impedire, attenuare o risolvere le controversie tra Stati». E c’è anche un’altra ragione, anzi due, per cui quel provvedimento provvisorio e cautelare è comunque degno di nota: «Esso ci dice che l’accusa ha un fondamento giuridico astrattamente possibile, essendo la Corte competente in tali materie; inoltre, i provvedimenti provvisori indicano comunque come ci si dovrebbe comportare durante un conflitto a tutela dei civili», e dunque questo fa giurisprudenza.

Le decisioni della Corte, insomma, non funzionano come clava per detronizzare all’istante un «mostro», ma incidono comunque sulle tecniche di manifestazione del conflitto, di cui le armi sono solo un aspetto e la diplomazia è un altro, e non indifferente. Della serie, non esistono solo le bombe ma anche le affermazioni di principio, di cui le parti in causa fanno lancia e scudo a loro piacimento e secondo convenienza: così come per gli stati Uniti e gli ucraini Vladimir Putin è un deportatore di bambini, allo stesso modo per i palestinesi Benjamin Netanyahu è un genocida.

Quale lezione possiamo trarre da tutto ciò? Che le istituzioni internazionali sono di per sé astratte e inefficaci nell’incidere sulla bellicosità dei singoli Stati, ma al contempo la guerra si combatte anche con i dibattiti e le relazioni internazionali. Di conseguenza, alla lunga tanto Putin quanto Netanyahu non dovrebbero «stare sereni», per usare un’espressione cara ai nostri politici, né sottovalutare il potere del diritto, che oltretutto (al contrario delle guerre) non ha una data di scadenza e può pertanto essere sfruttato a posteriori. Specie quando gli accusati non dovessero essere più alla guida dei rispettivi governi.

Circostanza che per Putin potrebbe anche non verificarsi mai, ma di certo accadrà prima o poi per Netanyahu. Sempre che – non scordiamolo – il giudice accolga le accuse contro il premier israeliano. Forse allora potremo valutare meglio il reale peso della Corte penale internazionale.

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