L’America in armi
Una linea sottile tra diritto e lotta per la sopravvivenza, la realtà è mutata rispetto a quella dei Padri fondatori
Da una parte «il male», dall’altra «il diritto».
Il male, idea primordiale, esoterica, è la evocazione della sopravvivenza umana come un mistero. Il diritto è invece l’universo in cui si iscrive (e forse si illude) la società umana che pensa di poter garantire, attraverso la razionalità delle norme, la propria sopravvivenza.
Distinzione chiara? Assolutamente no.
No, se il diritto a difendersi diventa la misura finale del maggiore dei diritti: la libertà individuale.
In tale labirinto si muove il dibattito americano esploso sui corpi di 19 bambini e due insegnanti, uccisi da un «odiatore» 18enne. Non è la prima strage di questo tipo. Ce ne sono anzi state così tante – 163 stragi fra il 1967 e il 2019 – da essere diventate ormai un crimine quasi esclusivamente «americano», un crimine identitario. Come tale, chiave efficace per capire quello che è oggi il Paese.
L’identità di cui si parla in queste ore è quella spesso accomunata allo Stato della più recente strage, il Texas: cowboys, pistole, la Frontiera, insomma.
L’identità che invece queste recenti stragi evocano è quella scritta nel libro più importante degli Stati Uniti, la Costituzione, per certi versi un libro magico perché scritto con l’ambizione di essere la guida «spirituale» del nuovo Paese – appena uscito dalla vittoria per la propria indipendenza. Spirituale, va sottolineato perché gli Stati Uniti hanno come atto fondativo la religione, «In God we trust», espressione della dissidenza e della rivolta contro la decadenza dell’Europa.
Delle armi si parla nel Secondo Emendamento della Costituzione. Ed è la voce di uno dei grandi americani, uno dei Padri Fondatori, che ascoltiamo quando leggiamo questo emendamento approvato dagli Stati ed autenticato nel 1791, dall’allora Segretario di Stato Thomas Jefferson: «Essendo necessaria alla sicurezza di uno Stato libero una milizia ben organizzata, non si potrà violare il diritto dei cittadini di possedere e portare armi». Le parole usate sono chiare: il possesso di un’arma è un diritto perché è il riconoscimento che un uomo Libero deve difendere il suo Stato libero.
Per capire il peso di questo concetto, val la pena di tornare sul più bello dei testi fondativi, la Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti d’America, scritto nel 1776, sempre da Thomas Jefferson: « Noi riteniamo che le seguenti verità siano di per sé stesse evidenti; che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono dotati dal loro Creatore di alcuni Diritti inalienabili, che fra questi vi sono la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità». Il possesso di un’arma per difendere un libero stato abitato da Liberi uomini, fu, in quegli albori, la celebrazione di un atto che trasformava in cittadini coloro che erano arrivati in un Paese selvaggio come poco più di una massa anonima di sudditi respinti, poveri, dissidenti.
La Costituzione è un testo «spirituale» nel senso che più che una gabbia di norme è una indicazione di percorso, una seconda Bibbia, in qualche modo, la cui natura si riflette in una idea di Giustizia che, pur essendo uno dei pilastri politici del Paese, rimane molto empirica, cioè legata ai casi; interpretativa, e dunque in continua evoluzione. Lo scontro intorno alle Armi può essere letto, appunto, come parte di questa «evoluzione» continua del giudizio legale americano sulla propria società. Che nel corso dei secoli si è fortemente ideologizzato.
Torniamo così al congresso della Nra in corso proprio in Texas. La National Rifle Association, che oggi viene giustamente definita come una lobby potentissima, è la più antica organizzazione per i «diritti civili» ( quello del possesso delle armi lo è , come si è visto), nata a New York nel 1871. Nel Congresso si capisce bene la caratura politica che per la destra americana hanno assunto le armi – la difesa dal «male», di cui si diceva prima. Le armi sono non la causa, ma la difesa dal male: «Limitare i diritti fondamentali non è la soluzione al male, non è la risposta al male». L’ex presidente Donald Trump ha abbracciato l’idea: «Quando sarò Presidente per la seconda volta combatterò il male».
E fin qui ci siamo. Ma chi è oggi il «male»? Qui è la radice della evoluzione (involuzione?). Nel corso dei due secoli passati, il male è diventato lentamente non più, o almeno non solo, la minaccia esterna. Le numerose guerre che hanno costruito con onore una grande potenza, nel secolo scorso, sono state progressivamente sostituite nel declino del Secolo americano, da un male «interno».
Il New York Times, indagando su questo filone, fa notare che «l’acquisto di armi negli Stati Uniti registra un’impennata ogni qualvolta si verifica una strage, o qualcosa che fa aumentare la paura per la propria sicurezza. Fino a un giro d’affari di due milioni di armi vendute al mese. Come riportato dal grafico, il processo inizia subito dopo l’11 settembre, poi subito dopo le elezioni di Barack Obama (il quale promise, senza riuscirci, una stretta sulla libera vendita di armi, causando una disperata corsa all’acquisto, prima che venisse approvata la legge), e di nuovo con la pandemia. E l’assalto a Capitol City».
Che tutto cambi dall’attacco alle Torri nel 2001 ha una forte logica. Tutto si tiene. Quella data è anche l’avvio di un nuovo ciclo di guerre, Iraq, Afghanistan e la guerra al terrorismo, che ormai dura ininterrottamente da più di vent’anni.
In questi stessi anni, la società americana ha cambiato pelle. La erosione del suo ruolo di modello globale ha provocato anche una erosione del consenso interno al sistema politico: la questione razziale, e quella, ancora più grande, delle diseguaglianze interne al sistema hanno portato a una erosione della coesione interna degli Usa. Se guardiamo così all’acquisto di armi attraverso la lente della paura, vediamo che il fenomeno coinvolge soprattutto i bianchi, ma la divisione politica scavalla i ceti. Gli armati sono per metà repubblicani, ma i democratici hanno una loro quota di 1 su 5.
Ma basta la paura a spiegare tutto questo? In parte. In queste stragi vengono impiegate armi d’assalto, cioè armi usate in guerra dall’esercito. E infatti Biden ha chiesto proprio che questo tipo di arma sia limitato. Ma perché si è diffuso questo strumento? Questo è il punto in cui si crea la confusione.
Il ciclo ventennale di guerre avviato dall’attacco delle due Torri, cui abbiamo fatto cenno, è un fenomeno nuovo in America. Il Paese è sempre stato attivo sul fronte militare. Specie nell’immediato Dopoguerra. Ma a parte Corea e Vietnam, la presenza militare americana è stata «diffusa», cioè attiva ma limitata, spesso indiretta, nell’impiego di uomini e mezzi: così è successo in America Centrale, in Africa, e nei Balcani. Il grande ritorno della mobilitazione di eserciti è stata la guerra ’90-’91 contro Saddam Hussein in Iraq, e poi appieno dopo le Torri Gemelle. In venti anni la guerra è penetrata in America: le armi, le divise, le tecniche militari, sono state adottate dalla polizia (anche da quella inefficiente del Texas), e il mondo delle armi è diventato parte dell’immaginario Usa. La società, convivendoci, ha, insomma, in qualche modo assorbito e sdoganato la guerra.
Anche i Democratici, che nella platea internazionale sono sempre stati più attivi protagonisti dei repubblicani, nei grandi conflitti americani, si sono sempre ispirati alla difesa della libertà del singolo con la difesa di un libero Stato. Si tratta della stessa Costituzione, dopotutto.
La confusione di cui parliamo è questa: Democratici e Repubblicani, sono divisi, ma hanno radici nella stessa cultura. La differenza è nella declinazione.
I Repubblicani, che si appellano all’originalismo, cioè a una interpretazione che si rifà a una interpretazione letterale della Costituzione, sono riusciti a darsi una orribile, potenzialmente razzista, ma coerente narrativa della paura. Quella dei Democratici invece fatica. Un Joe Biden che chiede il controllo delle armi pesanti per evitare stragi è lo stesso che in questo periodo chiede di dare armi da guerra a un altro Paese, sia pur sotto attacco. Certo c’è una grande differenza fra difendere l’Ucraina, aggredita, e limitare la libera circolazione di armi in patria fra cittadini. Ma in qualche modo la differenza si perde nel grande calcolo delle vittime.