Il primario Mosca assolto dall’accusa di omicidio adesso vuole solo tornare al suo lavoro
Dopo la sentenza è pronto a rientrare al pronto soccorso di Montichiari : «Rivoglio il mio titolo e il mio ruolo, me li sono guadagnati»
MANTOVA. «Mi rimane un anno e mezzo di assenza di libertà, un anno e mezzo dove ho perso la mia cattedra e il mio ambiente di lavoro che per me rappresenta il 90% della vita». I filmati che da venerdì rimbalzano nel web raccontano di un uomo che ora vuole solo riprendersi la sua vita e il suo lavoro dopo un anno e mezzo di arresti domiciliari. Carlo Mosca, primario del pronto soccorso di Montichiari già in servizio per tre anni all’ospedale Carlo Poma di Mantova, lo dice chiaramente nelle interviste video rilasciate a tv e siti di giornali locali e nazionali subito dopo la sentenza con cui la Corte d’assise di Brescia lo ha assolto dall’accusa di omicidio volontario di due pazienti nella fase più dura della pandemia: «Chiederò sicuramente il risarcimento per questo anno e mezzo di arresti domiciliari ma a me adesso interessa tornare sul mio posto di lavoro, ho persone che mi aspettano e vogliono sapere quando ricomincio». E il suo posto è lì, dove questo incubo è iniziato: «Tornerò assolutamente a lavorare a Montichiari – dichiara in una delle tante interviste video – rivoglio il mio titolo perché me lo sono guadagnato con le mie forze e tornerò ad insegnare all’università».
La Corte ha anche disposto il trasferimento degli atti in procura per calunnia nei confronti dei due infermieri che lo accusavano della morte di due pazienti, di 61 e 79 anni, ricoverati a marzo 2020, per aver somministrato Propofol e Succinilcolina, farmaci «incompatibili con la vita» da utilizzare prima dell'intubazione che nei casi in questione non era stata eseguita.
«Mi sembra un atto dovuto – ha detto ancora – e credo che il giudice abbia capito bene quale fosse l’ambiente, il periodo storico e le motivazioni per le quali questi due infermieri si sono mossi. Sono gli unici, erano gli ultimi due arrivati, spostati da un reparto all’altro, io posso comprendere le loro delusioni in un certo senso, però io dovevo svolgere il mio ruolo, avevo cento persone in malattia e chiaramente mi serviva personale: per me vengono prima il lavoro e il malato».
Insomma, ha dichiarato ancora, «la verità è venuta fuori, grazie al grande lavoro dei mie avvocati e dei periti che hanno dimostrato in modo scientifico l’assenta di Propofol nel cervello del paziente e quindi la somministrazione post mortem». Lui d’altronde ha sempre detto di non aver somministrato il farmaco ipotizzando che qualcuno potesse averlo iniettato a paziente già morto. Qualcuno che «ha voluto farmi del male».