L’infermiera Cristina: «Troppo stress: ho dovuto lasciare l’ospedale per lavorare nel privato»
La testimonianza di Cristina, ex dipendente di Neurochirurgia a Udine ora passata al privato. «Ma l’amore per questo lavoro resta lo stesso»
TRIESTE «Ho lasciato la sanità pubblica, ma rimango un’infermiera perché amo questo lavoro». Cristina Minissale è uno degli operatori sanitari che hanno attraversato la tempesta del Covid. Tanta sofferenza e poche ore di sonno, racconta la giovane pordenonese che ha lasciato il posto fisso per il privato, dal maggio scorso con partita Iva.
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In quali strutture ha lavorato?
«Sono partita da una casa di riposo, quindi Medicina e Rsa. Poi, per diversi anni, ho lavorato nella Neurochirurgia dell’ospedale di Udine. Un’esperienza bellissima, la mia seconda casa. Ho incontrato colleghi meravigliosi, che mi hanno aiutato e insegnato tanto. Nel 2020, purtroppo, è iniziata la pandemia».
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Come è cambiata la sua vita?
«Sono entrata nel reparto Covid, dove sono rimasta oltre un anno. Tuta, quattro paia di guanti e mascherina, sempre nella cosiddetta zona sporca, nulla è stato facile. Ci davamo una mano, ma il crollo psicologico era dietro all’angolo, anche perché, spesso, ci trovavamo davanti tantissimi pazienti».
Com’era il rapporto con loro?
«Avevano bisogno di un’assistenza non solo sanitaria, ma anche umana. Ricordo che cercavo di comunicare quanta più vicinanza possibile. Ho ancora in mente i nomi di chi ringraziava, di chi mi riconosceva attraverso gli occhi. Qualcuno è deceduto. Anzi, troppi sono deceduti, giorno dopo giorno: il dramma nel dramma. Il rapporto con la morte è diventato per me malsano, ho visto il buio della vita. Fossi stata più fredda mi sarei costruita una corazza, ma sono una persona sensibile e non mi cambierei. Né avrei preferito fare un altro lavoro».
Sta cercando di dimenticare?
«Non voglio dimenticare nulla. Il ricordo aiuta a migliorare».
A un certo punto cos’è successo?
«Non sono stata bene. Ho avuto due segnali attorno a fine 2020. Il primo è che ho iniziato a dormire poco, non più di due-tre ore per notte. Troppi pensieri sulla responsabilità del lavoro in quella situazione. Ma mi alzavo e andavo in corsia: era il mio dovere».
Il secondo?
«Un paziente mi chiama per dirmi che non gli avevo somministrato l’insulina. Mi ero dimenticata di una cosa importantissima. Lì sono crollata. E ho iniziato a pensare che, dopo essermi presa cura degli altri, avrei dovuto prendere cura di me. Sono rimasta a casa qualche mese per resettare il cervello e rimettermi in piedi».
Non è bastato?
«Continuavo a pensare al lavoro e mi sentivo in colpa perché non ero abituata a non esserci. Quando poi è stata fatta una redistribuzione del personale, sono finita in Epatologia e trapianti di fegato, sempre a Udine. Un altro anno di belle esperienze, con bravissime persone accanto. Parlandone con il mio compagno e le mie amiche, dopo quasi dieci anni nel pubblico, attratta dall’ambito domiciliare, ho però deciso di cambiare aria. Un po’ di pancia. E dalla primavera di quest’anno sono nel privato».
Dove lavora oggi?
«In un ambulatorio, in una casa di riposo e in una Rsa. Faccio pure dei corsi di formazione agli Oss e sto realizzando un piccolo sogno: sono iscritta alla scuola nazionale di massaggio».
Guadagna di più? Sta meglio?
«Qualcosa di più sì, la guadagno. Ma quello che conta è che ho ripreso in parte la mia vita».
Come rendere il lavoro nel pubblico più gratificante?
«Si continua perché si ama il lavoro. Ma è necessario che la figura dell’infermiere venga valorizzata dal punto di vista professionale ed economico. Non ci siamo tirati indietro, appunto per amore della professione, ma troppe volte siamo stati abbandonati, senza bussola, senza che nessuno ci spiegasse le cose».