Francesco Vasques da Mestre: «Io, medico a Londra nella trincea delle terapie intensive»
Cercando nell’archivio del giornale, l’unica traccia che si trova di Francesco Vasques è l’articolo per il voto alla maturità: 100 centesimi al liceo Franchetti di Mestre. Era il 2006. Sedici anni dopo lo ritroviamo medico anestesista-rianimatore a Londra. O meglio: Consultant in intensive care medicine al Guy’s and St Thomas’ hospital. È l’ospedale che si affaccia sul Tamigi, tra il Parlamento e la ruota panoramica. Francesco Vasques, 35 anni, figlio di un impiegato del Comune di Venezia e di una insegnante, era un giovane medico quando è arrivato in Inghilterra. Poi è arrivata la pandemia con i suoi drammi. E lui è sempre rimasto lì, nella trincea dei pronto soccorso e delle terapie intensive, con i pazienti da intubare e quelli che invece morivano da un giorno all’altro.
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Francesco Vasques, partiamo dal suo cognome: che origini ha?
«Le origini sono spagnole ma molto remote. Il cognome risale al periodo di dominazione spagnola in Sicilia, dove abitò mio nonno fino al momento in cui decise di trasferirsi a Venezia».
Come le è venuto il pallino della Medicina?
«Tutto il mio percorso è stato determinato da scelte fortunate, parlerei proprio di serendipità. Ho uno zio che fa il medico di base a Spinea e dopo aver parlato con lui ho deciso di provare a entrare a Medicina. Venendo dal classico avevo paura per Matematica, Fisica, Chimica. E infatti sono arrivato quartultimo. Ma per fortuna conta poco, per il resto della storia».
Com’è stato il suo percorso di studi?
«All’inizio ci sono rimasto secco: al primo esame di Fisica ho preso 5 su 30. Poi però mi sono rialzato e, alla fine, sono uscito con 110 e menzione di eccellenza. Mi sono laureato con una tesi in Cardiochirurgia, relatore il professor Gino Gerosa».
Come mai è passato a fare l’anestesista?
«Nel 2008, al terzo anno, io e un amico siamo venuti a Londra per un periodo di tirocinio. Eravamo in contatto con una professoressa del St George’s Hospital. Per un mese abbiamo potuto vedere come funziona, siamo stati due settimane in Anestesia e una in Terapia intensiva. È stata un’esperienza illuminante. Così è nato questo interesse».
Come mai ha deciso di lasciare l’Italia?
«Ho fatto l’Erasmus in Finlandia e ho visto le differenze profonde tra l’estero e l’Italia. Durante la specialità mi è venuta voglia di conoscere anche altre realtà, nell’ottica di sviluppare il mio interesse per la ricerca. Così ho cominciato a considerare l’estero».
A Londra come ci è arrivato?
«A puntate, passando per la Germania. A un certo punto mi chiedono se voglio andare a Toronto. Dico no, troppo lontano. Suggerisco quindi Londra. Faccio il test d’inglese ma non lo passo subito. Ed ecco che arriva l’occasione unica di andare in Germania, dove per 17 mesi ho avuto il privilegio di lavorare con Luciano Gattinoni, professore emerito dell’Università di Göttingen, uno dei più grandi esperti in anestesia e rianimazione. Lì ho conosciuto Luigi Camporota, medico a Londra, che mi propose un programma di fellowship. E ora eccomi qua».
Quasi una favola, fino a febbraio 2020. Poi, però, è arrivato il Covid.
«Prima difficoltà: sopprimere l’istinto di tornare in Italia. Ho deciso di rimanere, perché c’era bisogno di me anche qua. Avevo appena cambiato dalla rianimazione dell’adulto a quella pediatrica ma poi ho fatto la spola qua e là».
Cosa l’ha colpita?
«Ho testato l’efficienza della sanità inglese: un sistema ipertrofico che riesce a crescere attorno alle esigenze del malato. Ma umanamente è stato terribile».
Cosa intende dire?
«Non scorderò mai Natale 2020. Le vie dello shopping di Londra erano invase di gente per gli acquisti e così si è generata quella che abbiamo battezzato Wave 2, la seconda ondata. Arrivavano al pronto soccorso e morivano lì. Tutti per Covid, tutti non vaccinati, anche perché la campagna vaccinale era iniziata da poco. La notte del 31 dicembre io e i colleghi abbiamo intubato 8 persone: è un numero altissimo, anche per Londra».
Come si è sentito durante questa esperienza professionale così forte?
«Io ero tra i fortunati che hanno avuto un lavoro. E il mio aumento di lavoro è sempre stato pagato, a differenza di molti miei colleghi in Italia. Qua se fai ore in più, vieni pagato. In Italia, forse, te ne pagano qualcuna. Ho apprezzato il supporto di colleghi più anziani, anche di altre specialità: il cosiddetto multi disciplinary team. Nessuno ha paura che qualcuno rubi il mestiere».
Quanto guadagna e dove vive?
«Guadagno come tutti i miei colleghi in questa fascia: circa 80 mila sterline l’anno, lorde ovviamente. E vivo con la mia compagna Julia in zona Elephant and Castle. Ci siamo conosciuti in Germania, lavora nel campo delle energie rinnovabili. Se sono qua è anche merito suo».
Si sente un cervello in fuga?
«Al momento sto bene qui. In Italia non ci tornerei per ora, ma in futuro non lo escludo. La vita ti porta dove vuole. La cosa importante è godersi il percorso».