‘Ndrangheta a Verona, 30 anni per il boss Giardino. Tutte le altre condanne
Un clan mafioso di stampo ’ndranghetista trapiantato in Veneto e operante a tutti gli effetti in provincia di Verona. Emessa in tarda serata la sentenza del tribunale scaligero presieduto da Salvatore Laganà che, confermando l’impianto accusatorio, chiude con pesanti condanne il primo grado di giudizio dell’inchiesta “Isola Scaligera” realizzata dalle Squadre Mobili di Verona e Venezia e del Servizio operativo della Polizia, coordinate dalla pm della Dda di Venezia, Lucia D’Alessandro e da Stefano Buccini. Secondo l’accusa, i venti imputati avevano operato in maniera illecita a favore del clan Giardino, legato alla ’ndrangheta calabrese. Tra le contestazioni, oltre all’associazione di stampo mafioso, anche reati del calibro di estorsione, truffa, fatture false, droga, corruzione.
Tra le pene inflitte, spiccano i 30 anni ad Antonio Giardino, considerato il capo del clan. Per la Distrettuale antimafia, “Totareddu” era «il capo indiscusso del locale di ’ndrangheta di Isola Capo Rizzuto operativa nel territorio di Verona». Giardino Senior è accusato di aver organizzato e diretto l’articolazione in terra scaligera del clan del boss Pasquale Arena “Nasca”, «assumendo le decisioni più rilevanti, pretendendo obbedienza dagli appartenenti al sodalizio, intrattenendo rapporti con i vertici del clan, assicurando al sodalizio la disponibilità di armi».
Trent’anni di carcere al fratello, Alfredo Giardino; 23 anni a Michele Pugliese. Condannato a 15 Francesco Vallone, titolare della Centro studi Fermi, dove si sarebbero dovuti svolgere i corsi fantasma per gli operatori dell’Amia, l’azienda municipalizzata di Verona. Due assoluzioni, invece, per Antonella Bova, moglie di Antonio Giardino, e per Luigi Russo. Per la moglie di Giardino, la Procura aveva chiesto 26 anni di carcere e 30 mila euro di multa. Le accuse andavano - a vario titolo - dall’associazione mafiosa all’estorsione, dalla truffa, al riciclaggio, dalla corruzione e turbativa d’asta. Per Russo, invece, erano stati chiesti 24 anni (anche su di lui pendeva l’accusa di 416 bis). La sentenza di ieri, primo grado di un processo ancora lontano dall’essere concluso definitivamente in attesa dei ricorsi, si aggiunge alla chiusura del processo con rito abbreviato, anche questo in attesa di appello, con cui nei mesi scorsi erano stati condannati altri 20 imputati. Tra i nomi più noti quello di Andrea Miglioranzi ex presidente della municipalizzata Amia, accusato di corruzione e condannato a 2 anni. Assolto invece per l’ex direttore Ennio Cozzolotto.
Nella rete degli inquirenti, grazie all’utilizzo di intercettazioni telefoniche e ambientali, erano finite le pratiche messe in atto per ripulire i soldi frutto di crimini commessi. Nel mirino era finita anche la municipalizzata Amia con i suoi ex vertici, ora costituitasi parte civile insieme alla Cgil.
Nel corso della requisitoria, durante la quale i pm antimafia Buccini e D’Alessandro avevano chiesto complessivi 237 anni di carcere, la procura antimafia si era espressa dicendo che «per le locali di ‘ndrangheta nel Nord Italia, e a Verona in particolare, il problema non è fare i soldi ma ripulirli». E ancora, citando le testimonianze dei collaboratori di giustizia: «Al Nord non bisogna fare azioni eclatanti, non è necessaria l’affiliazione e l’obiettivo non è infiltrare i territori, ma infiltrare l’economia». Ora in primo grado questo impianto accusatorio è stato confermato.