Il vescovo Trevisi a un anno dal suo arrivo a Trieste: «Il mio incontro con i cuori fragili di questa città»
foto da Quotidiani locali
TRIESTE Mentre parla ripensando a questi suoi primi dodici mesi da vescovo di Trieste, passando le dita sull’anello episcopale con le effigie volute da Paolo VI dove sono incisi Cristo, Pietro e Paolo sotto la croce, monsignor Enrico Trevisi riceve un messaggio al cellulare: «Come stai don Enrico?».
È un messaggio di un giovane triestino con una grave malattia. «Ecco, se devo descrivere il mio primo anno da vescovo di questa città... sono queste cose le cose che più mi hanno colpito, cioè le persone che ho incontrato – dice – e che ho potuto conoscere nel profondo, come questo ragazzo ammalato...», continua con gli occhi lucidi. «In queste persone, anche se non conoscono il catechismo, vedo il volto di Cristo. Sai – osserva – Gesù non ti interroga sul catechismo...».
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Un anno di incontri, dunque, «con le tante comunità espressioni vive e belle della città e le persone con cui sto camminando assieme». E con le famiglie che lo invitano a cena «dove sento la gioia di stare accanto alle mamme, ai papà e ai bambini nella vita di ogni giorno», o le visite nelle case di riposo e nelle comunità parrocchiali. «In questo primo anno – racconta – ho toccato con mano le difficoltà dei genitori, la piaga della disoccupazione, la fatica del vivere, le aziende che chiudono, le innumerevoli solitudini, ad iniziare da quelle degli anziani, e il disagio giovanile. C’è una fragilità diffusa, pervasiva... vorrei dire una “pandemia” per la quale non esiste il vaccino. Questa pandemia è proprio la fragilità umana. Noi la viviamo, anche in questa città, nei ragazzi che non vanno più a scuola, nell’aggressività delle bande di ragazzetti, nelle sofferenze delle famiglie. Ho incontrato genitori che ce l’hanno messa tutta con i figli, ma devono scontrarsi con il loro buio. Non dobbiamo abbandonare nessuno».
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Un anno pieno anche di «problemi», non lo nasconde il vescovo, non ultimo il bilancio della Diocesi: «La Chiesa di Trieste porta avanti grandi opere di carità, lo scorso anno la Caritas ha distribuito 106 mila pasti. Abbiamo difficoltà a dare risposte a tutte le varie forme di povertà, non solo quella degli immigrati. A ciò si aggiungono le spese per alcune ristrutturazioni. Una delle questioni e proprio l’esposizione bancaria della Diocesi, ringraziamo chi ci può aiutare».
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Se c’è un momento simbolico che ha caratterizzato questi dodici mesi è l’ingresso del vescovo al Silos a fine ottobre e i tanti appelli alla città (e alle istituzioni). «Se temo che le mie parole possano essere lette come qualcosa “di sinistra”? La mia preoccupazione è non allontanarmi dal Vangelo – spiega – non posso predicare il Vangelo e poi passare a fianco a delle persone toccate dalla tragedia, dalla povertà e girarmi dall’altra parte. Non voglio che ciò che dico sia strumentalizzato politicamente. Nel rispetto delle istituzioni, da parte mia c’è la franchezza nel segnalare la drammaticità di alcune situazioni. Chiaramente poi tutte le questioni hanno un loro risvolto politico, nel senso ampio e nobile del termine».