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Siria, il paese strappato



È al centro delle tensioni tra Israele e Iran, che si scontrano anche entro i suoi confini. Ma lo Stato mediorientale è già martoriato dalla guerra civile, da un’economia al collasso, dalla prepotenza di interessi stranieri. E ora funziona anche da «hub» per una micidiale droga.

La Siria? Ormai è una no man’s land, una terra di nessuno probabilmente senza futuro». La sentenza tranchant è di quelle che non si scordano. E proviene da fonti autorevoli del governo israeliano, preoccupate tanto dalle milizie sciite filo-iraniane che bombardano il loro territorio su ordine di Teheran, quanto dalla grave flessione economica che ha depresso l’intera regione in seguito alla guerra civile. Ancor prima che la minaccia militare, infatti, secondo gli stessi economisti mediorientali il fatto che la Siria sia uno «Stato fallito» non solo impedisce qualsivoglia processo di pacificazione della regione, ma peggiora sensibilmente le prospettive di crescita economica anche dei Paesi vicini.

Dal 2011 in poi, anno dello scoppio della guerra civile, i tassi di crescita medi annui del prodotto interno lordo si sono ridotti sia in Iraq, sia in Giordania che in Libano. Cumulativamente, i tre Paesi hanno perso circa l’11 per cento del Pil dell’epoca prebellica (2010), secondo i dati della Banca Mondiale. Con la diminuzione del commercio di transito attraverso la Siria e il blocco delle esportazioni di servizi come il turismo, l’effetto marginale dello shock commerciale sul Pil ha colpito duro soprattutto in Giordania (-3,1 punti percentuali) e in Libano (-2,9 punti percentuali). In compenso, gli arrivi di rifugiati siriani hanno contribuito ad accrescere il Pil nazionale di appena 0,9 punti percentuali per entrambi i Paesi, in relazione all’offerta di lavoro. E pensare che prima della guerra l’economia stava dando segnali di notevole dinamicità: le principali risorse erano nei settori energetico (petrolio, gas e fosfato), e agricolo. A seguire, il comparto chimico e quello dei servizi. Fino al 2011 anche il turismo rappresentava una voce fondamentale per l’economia siriana: ogni anno circa cinque milioni di viaggiatori si recavano in Siria per visitare aree archeologiche come Palmira (che i jihadisti dell’Isis hanno occupato a lungo e poi semi-distrutta), o le millenarie città di Damasco e Aleppo.

In quell’epoca stavano acquisendo sempre maggior peso anche i servizi finanziari (la Borsa di Damasco aveva iniziato a operare nel 2009, dopo ben 46 anni di interruzione), così come le telecomunicazioni e il commercio. Tutto grazie alle prime liberazioni e privatizzazioni - sia pur parziali - degli anni Novanta, seguite al crollo dell’Urss cui l’economia siriana era stata strettamente legata fino a quel momento. Il Paese, prima del 2011, stava cioè transitando da un’economia chiusa a un sistema dinamico che nel 2010 gli era valso addirittura lo status di Osservatore della World Trade Organization (Wto) grazie all’intervento degli Stati Uniti. Damasco aveva retto anche alla recessione globale del 2009, registrando addirittura una crescita del 4 per cento l’anno successivo: Iraq, Turchia, Libano, Egitto, Cina e persino i Paesi dell’Unione Europea, Italia e Germania in primis, si erano affacciate al mercato siriano che era valso a Damasco un interscambio commerciale del valore di 5,4 miliardi di dollari (all’epoca circa il 23 per cento del commercio totale siriano). Così aveva fatto anche Israele, che nonostante i pessimi rapporti politici con gli Assad aveva aperto numerosi canali di comunicazione. Oggi sono limitati al commercio di frutta (più che altro mele), alla fornitura d’acqua potabile per alcuni villaggi lungo le alture del Golan (la frontiera naturale che divide i due Paesi), e alle cure mediche.

Dopo il conflitto siriano e la sconfitta dell’Isis - oltre mezzo milione di vittime e circa 16 milioni di profughi - la stanca dittatura della famiglia Assad, al potere dal 1970, non è più riuscita a rimettersi in piedi. Ciò nonostante, poiché non è attualmente ragionevole ipotizzare una caduta di Assad, «bisogna semmai fare un bagno di realismo geopolitico e di opportunismo economico» ragiona l’analista geopolitico Giuseppe Manna. «Il sostegno giunto alla Siria da Mosca e Teheran ha consentito al regime di sopravvivere e riconquistare buona parte del territorio. I primi ad abbandonare la strada dell’ostracismo sono stati gli Emirati che, a dicembre 2018, hanno annunciato la riapertura della loro ambasciata. Mentre nel 2023 la Siria è stata riammessa nella Lega Araba e ormai anche i sauditi sono vicini a riaprire la rappresentanza diplomatica». Il motivo è presto detto: «È stata determinante la volontà di non lasciare che il Paese finisse nell’orbita iraniana più di quanto non lo sia già. Al contempo, le petro-monarchie hanno fiutato la possibilità di affari miliardari nella ricostruzione».

Dopo più di dieci anni di guerra, insomma, il volto della Siria è cambiato in modo drammatico, anche geograficamente, con varie zone controllate da diverse potenze regionali e internazionali. La Russia, alleato di ferro del regime siriano, ad esempio, ha un contingente militare in Siria dal 2015 a sostegno del governo di Bashar al Assad. La Turchia, altro attore chiave, è schierata con le milizie siriane nel nord. Gli Stati Uniti, invece, supportano le milizie curde che controllano le regioni di Raqqa e Qamishli (e all’occorrenza colpiscono le forze filo iraniane, come nei bombardamenti di inizio febbraio, risposta alla morte di tre marine uccisi in Giordania). A sud pesa l’influenza di Teheran, come prova anche l’attacco sferrato da Tel Aviv il 1° aprile all’ambasciata iraniana a Damasco con la morte di un generale dei Pasdaran che gestiva i rifornimenti di armi a Hezbollah. Ma ci sono anche altre milizie sciite: Forze di Difesa Popolare (Ndf), Brigata al-Quds, Liwa Zainebiyoon (pakistani), Fatemiyoun (volontari afgani che combattono per Assad), oltre a gruppi locali che si sono formati durante la guerra civile. L’Iran dunque è ben posizionato e, al momento in cui scriviamo, avrebbe ordinato l’evacuazione di alcune sue basi nell’attesa della risposta israeliana all’attacco sferrato da Teheran con droni e missili la notte del 14 aprile (fonte Washington Post). Infine, rimane lo Stato islamico - mai definitivamente debellato - che controlla ancora piccole aree di territorio, in particolare nelle province orientali di Deir ez-Zor e al-Hasakah, dove conduce sporadici attacchi contro le forze governative siriane, i curdi e altri gruppi.

Insomma, un coacervo di conflitti e influenze da cui deriva la poco lusinghiera (ma alquanto veritiera) definizione di no man’s land, per non parlare dell’esplosione del mercato nero e di una sorta di economia di guerra che ha reso la Siria una sorta di «narcostato», dato che vi si produce l’80 per cento del mercato globale di Captagon, la micidiale amfetamina che sta prendendo piede in Medio Oriente, Africa e Asia. Tanto che il 26 aprile 2023 le autorità dell’Arabia Saudita hanno sequestrato 13 milioni di pillole nascoste in carichi di frutta provenienti dal porto siriano di Tartous. I responsabili? Secondo il giornalista investigativo siriano Taim Alhajj, sarebbero gli stessi «membri di alto rango della famiglia Assad a produrre droga». Movente, i soldi. Il mercato delle «pillole della jihad», secondo una ricerca dell’Onu del 2021, varrebbe fino a 2,5 miliardi di dollari (una dose è venduta a circa 25 dollari e produrla costa meno di 0,5); ma altre stime del 2023 parlano di un valore globale che potrebbe raggiungere addirittura i 30 miliardi. L’ennesimo veleno nella tanto martoriata Siria.

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