E se un giorno si potesse cancellare la paura dalla memoria?
L’ansia è una brutta bestia, chi ne ha sofferto lo sa. E non parliamo dell’ansia che un teenager potrebbe citare in relazione a un’interrogazione a scuola. No, l’ansia patologica immobilizza, confonde, ci rende irriconoscibili a noi stessi e agli altri. Nel Dizionario Internazionale di Psicoterapia (Garzanti) alla voce ansia si legge: «stato di attivazione dell’organismo che si innesca quando una situazione viene percepita soggettivamente come pericolosa». Fin qui niente di male, anzi: la paura ci serve per evitare pericoli per la nostra incolumità.
Il problema nasce quando questa reazione del nostro asse corpo-mente va fuori controllo. In questi casi «si ha un disturbo d’ansia che può complicare notevolmente la vita di una persona e renderla incapace di affrontare anche le situazioni più comuni» continua il Dizionario.
E così succede che un’attività semplice come fare la spesa o bere una birra con un’amica diventi un’impresa titanica. Sudori, palpitazioni, sensazione di soffocamento: le manifestazioni dell’ansia sono molteplici, ma tutte sgradevoli. E quasi sempre il colpevole è un ormone che in questi casi si sprigiona nel corpo, il cortisolo.
In genere l’ansia patologica si lega a doppio filo a determinate situazioni. È come se nella nostra memoria, nostro malgrado, un determinato contesto venisse immotivatamente etichettato come pericoloso.
Uno studio piuttosto interessante, coordinato dal professor Mazahir T. Hasan e pubblicato sulla rivista Neuron, sembra aver intuito come poter scardinare questo meccanismo. Ne abbiamo parlato con Ilaria Bertocchi, ricercatrice del NICO, Neuroscience Institute Cavalieri Ottolenghi, che ha preso parte allo studio.
La ricerca ha innanzitutto compreso che gli engrammi, cioè le tracce di memoria presenti nel nostro cervello, vengono immagazzinate anche nell’ipotalamo, una zona cerebrale da cui si dirama anche il cosiddetto asse dello stress. «Dall’ipotalamo parte l’asse dello stress che regola la produzione di cortisolo. Sono diversi i neuropeptidi che influiscono sulla funzione di questo asse, fra cui l’ossitocina e il neuropeptide Y».
Capire meglio come funzionano i circuiti del cervello che permettono la memorizzazione (anche) della paura associata a un contesto è fondamentale. Sì, perché così è possibile mettere a punto nuove strategie per il trattamento di psicopatologie come l’ansia e il disturbo da stress post traumatico. «Per fare un esempio pratico, potremmo cancellare il ricordo di un morso di un cane che ci impedisce di avvicinarci a questi animali» ci spiega Bertocchi. E aldilà di questo, si potrebbe intervenire su fobie molto fastidiose come quelle – alcune bizzarre – citate nella gallery.
«Attivando cellule particolari, coinvolte nella produzione di ossitocina, è possibile spegnere la paura». Per ora i primi esperimenti sono stati condotti sui topi, quindi è presto per cantar vittoria. Però è stato dimostrato che questi piccoli roditori si liberano dal terrore se con una luce particolare o con sostanze chimiche si stimola la produzione di ossitocina. Questo neuropeptide è in grado di dissolvere la paura e permette ai topi di uscire dallo stato di paralisi dovuta al (percepito) eccessivo pericolo.