Amore e amuchina: conoscersi a Milano (ai tempi del coronavirus)
L’appuntamento è alle sei spaccate in Porta Ticinese, un quartiere centralissimo e trafficatissimo di Milano. È l’ultimo giorno della fashion week, ma a guardare i Navigli sembra un tranquillo pomeriggio di luglio: di quelli con poca gente in giro, in cui si cammina a passo svelto, ognuno verso la propria comfort zone. Guardo l’orologio, sono puntuale. Poi alzo lo sguardo, ecco lei: «Sei qui da tanto? Scusami davvero, ma sono uscita ora dalle sfilate». Benissimo, si parte forte.
«Giorgio Armani l’ha chiusa al pubblico, Laura Biagiotti l’ha chiusa al pubblico. Ma lei, ovviamente, ha trovato quelle aperte». Lo penso, ma non lo dico. Mi limito a un canonico: «Ciao, figurati, sono arrivato adesso». «Menomale! Tutto il giorno circondata da persone, non ne posso più». Ok, lo sta facendo di proposito: sta cronometrando quanto resisto prima di lanciarmi in una farmacia. Ci manca solo che tiri fuori un fazzoletto e…«scusa, mi soffio un attimo il naso».
Afferro frettolosamente il cellulare cercando conforto in qualche gruppo di WhatsApp, scegliendone uno dove si parla solo di Fantacalcio: «Ragazzi hanno sospeso quattro partite di Serie A, siamo messi male», leggo. «Tra l’altro il virus si sta espandendo, dice ci siano già alcuni casi a Milano». Vorrei lanciarlo in darsena, ma aspetto, perché il mio più caro amico sta scrivendo, sicuramente mi strapperà un sorriso: «C’erano pure le sfilate in questi giorni, il rischio contagio è concreto».
Tradito da tutti, traccio la rotta del nostro aperitivo indicando il locale più vuoto del circondario: «Ci sediamo qui. Anzi no, là. Più vicini al bancone? No dai, va bene lì. Sotto la lampada». Di quelle che scaldano, neanche cinque minuti e siamo accaldati neanche avessimo 40 di febbre. «Ascolta, spostiamoci verso la finestra». E per qualche minuto trovo pace. Bevo un bicchiere di vino, sembra quasi una serata normale: è la seconda volta che ci vediamo, per conoscerci serve relax.
Ma all’improvviso la porta si apre tipo saloon: uno schiaffo di aria gelida mi risveglia dal torpore e sei personaggi in mascherina entrano chiedendo un tavolo. Ovviamente vicino al nostro. «Andiamo a mangiare qualcosa, conosco una pizzeria carinissima qui vicino, non c’è neppure bisogno di prendere la metro». Così ci trasferiamo, pulendoci le mani con l’amuchina anche andando via. Che in realtà ha poco senso, ma ormai è tipo quel claim Crema&Gusto, «ogni momento è quello giusto».
«Adoro la pizza», mi dice dopo aver ordinato, «magari è l’ultima della mia vita e me la godrò con te». Brava, fa pure ironia. A pensarci bene sembra più un complimento: quasi quasi allungo una mano e l’accarezzo, ma quel fazzoletto che fa capolino dalla sua borsa non mi toglie gli occhi di dosso. Meglio cercare il contatto con un piede: tanto ho un paio di Blundstone, un calzino di lana, lei un pantalone di velluto e uno stivale. Quattro strati, basteranno? Meglio esser sicuri, ci metto nel mezzo anche la gamba del tavolo.
Il tempo corre veloce, a pancia piena tutto diventa più lieve: le chiacchiere, gli sguardi, il percorso verso il taxi. «Al diavolo il coronavirus, ora la bacio». Ma non faccio in tempo a collegare il pensiero con l’azione che arriva uno starnuto talmente forte da far girare pure i passanti. Tipo scudo interstellare, che mi allontana nuovamente e mi riporta al punto di partenza, come il Gioco dell’Oca. E capisco che uno degli aspetti più tristi dell’epidemia è quell’orribile – ma necessaria – frase, «ridurre la socialità».
Allora mi dirotto verso la fronte, per uno di quei baci che mi dava mia mamma per controllare se avevo la febbre. «No, non ce l’ha», penso dentro di me. Dannato coronavirus.