#iocisono, Simona, titolare di un’agenzia funebre: «Le lacrime che non ti ho detto»
L’intervista completa è pubblicata sul numero in edicola da mercoledì 25 marzo. Tutto il ricavato della vendita del numero 12 di Vanity Fair sarà devoluto in beneficenza all’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo
Purtroppo ha smesso di piovere, tempo ideale per i funerali. «Ma tanto non è un funerale», pensa Arianna, le hanno spiegato che si tratterà solo di una benedizione. Nessuno dei suoi parenti ha più potuto vedere zia Elena, da quando è stata messa nella bara qualche giorno prima. Già, la bara. Distante qualche metro, sembra un abisso. Otto parenti, tutti a distanza di qualche metro l’uno dall’altro, tutti con le protezioni anti-contagio. Gli addetti alle pompe funebri tengono la cassa, ma non entrano nel cimitero, immobili sul piazzale antistante il cancello del camposanto di Caselle Landi, a due passi dal Po, tra Piacenza e Cremona, dove c’è la cappella di famiglia. Arriva il prete, benedice il feretro. Le sue parole escono ovattate dalla mascherina. Dura in tutto due minuti. Poi la cassa viene portata via. «Restiamo rigidi. Impossibile dire qualcosa. Impossibile abbracciarsi». Anche le lacrime faticano a scendere. «Ma tanto», dice Arianna, «forse sono infette».
Elena aveva 86 anni e da cinquanta viveva a Milano, zona Corvetto. Poi a novembre la necessità di fare la dialisi, una sorella che vive a Lodi e che si offre di ospitarla e portarla avanti e indietro dall’Ospedale Maggiore. Ma lì è alto il rischio di contrarre il coronavirus, che infatti la infetta, e, con una situazione clinica già compromessa, Elena muore in pochi giorni. «Potete vederla due minuti, dotati di tute e protezioni, prima che chiudano la cassa», ci hanno detto all’ospedale. La dottoressa telefonava ogni sera. «L’ultima volta era commossa: doveva comunicarci che la zia era mancata. La sola cosa che ci ha consolato è che era sedata da un giorno, perciò non ha sofferto. Non si meritava di andarsene così: aveva bene in mente come avrebbe voluto il suo funerale, aveva scelto gli abiti, il luogo…».
«Quello che è successo ad Arianna è quello che succede a tantissime famiglie che perdono qualcuno in questo momento», mi dice Simona Ricchi, titolare di un’agenzia funebre che opera a Milano e nel suo hinterland. La sua voce è calma ma sofferente, al telefono. Continua a ripetere che non ha mai visto una cosa del genere, in modo ossessivo, sembra sotto shock. «Ricordo benissimo quando ho capito che qualcosa era cambiato. Era un sabato bello, di sole. Il giorno prima era stata data la notizia del “paziente 1” di Codogno. Noi abbiamo due case funerarie, luoghi dove sostano le salme prima della funzione, di solito. Ci stavamo quindi attrezzando per chiuderle, per evitare gli assembramenti e i contagi: dovevamo cambiare metodo di lavoro, quello è stato il primo segnale. Il secondo ci ha invece travolti in pieno, e sono i numeri. Le telefonate si sono moltiplicate». Secondo i dati della Protezione Civile i deceduti in Lombardia hanno superato i 2 mila e c’è stato un picco di oltre 200 morti al giorno. Secondo Riccardo Salvalaggio, segretario nazionale di FederCofit, che rappresenta le imprese funebri in Italia, sono tantissime le agenzie del Milanese che in questi giorni stanno supportando quelle della Bergamasca e del Bresciano. «Nel 2019, il 77% delle famiglie, in Lombardia, ha scelto di cremare i propri cari defunti, sono rare le tumulazioni in terra. Ai forni crematori di Bergamo attualmente l’attesa media è di otto giorni, di norma sono due. Per questo le salme vengono smistate altrove. Ma questa è solo una parte dell’emergenza: moltissimi nostri operatori si sono ammalati e sono in quarantena, quindi mandiamo aiuti da altre zone. Tuttavia il materiale protettivo sta finendo, e nessuno vuole mandare fuori i propri lavoratori se c’è un rischio. Il “becchino” è sempre stato deriso, umiliato, guardato con sospetto, adesso è cambiato tutto, c’è riconoscenza, la consapevolezza che siamo utili, anzi necessari». Simona conferma: «Le persone che assistiamo adesso sono tendenzialmente silenziose, un silenzio diverso dal solito. Sono senza parole. Siamo abituati ad andare nelle case delle persone, spiegare tutti i dettagli, aiutare in un momento di difficoltà. Eppure adesso, in un momento di chiusura in casa o quarantena diventiamo fondamentali: come infermieri e medici, siamo i soli che entrano in contatto con le famiglie. Si tratta di persone che magari hanno visto andare via la persona con l’ambulanza e poi non l’hanno vista più». […]
Foto di Marco Ferrario
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