Antonello Venditti: «Madonna che silenzio c’è stasera»
Questo articolo è stato pubblicato sul numero 26/27 di Vanity Fair in edicola dal 1° luglio
Questo silenzio mette un po’ paura: «Non ho parlato e non mi sono fatto vedere per tanto tempo perché a volte per fare rumore e accendere un faro nel buio devi saper tacere». Antonello Venditti non ama le canzoni «in cui si usano tante parole per dire pochissimo» e meno ancora gli piace che la passione a cui ha dedicato l’intera esistenza soffra di una «sottovalutazione costante» che ha origini lontane. «Il disinteresse della politica verso la musica è desolante. Ci battiamo da non so quanto tempo per l’abbassamento dell’Iva, per il copyright, per avere delle regole che tutelino i diritti dei lavoratori dello spettacolo e otteniamo in cambio solo retorica e sciatteria».
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A tutto volume, il primo grande evento digitale di Vanity FairCosa si aspetterebbe?
«Che qualcuno capisse che la musica è cultura e che le persone che grazie alla musica vivono sono lavoratori di quel mondo. Servono leggi e invece tra le dita restano solo slogan e promesse. Partecipo a convegni sul tema da quarant’anni e se mi guardo indietro scopro che non è cambiato niente».
Come mai, secondo lei?
«I politici non capiscono. È come se ci fosse qualcosa che impedisce loro di entrare nel meccanismo. Forse non sono mai stati a un concerto: bisognerebbe invitarli, ma non la sera stessa dell’esibizione».
Quando allora?
«La notte prima, quando si montano i palchi e vedi gente che si alza a 40 metri da terra per sistemare le luci e centinaia di persone che lavorano all’allestimento del palco, degli impianti di amplificazione e dei camerini. Un conto è andare comodamente a un concerto da spettatore, altro è osservarne la preparazione dietro le quinte».
Per il primo maggio si era spinto a chiedere una giornata di silenzio per tutelare i diritti dei lavoratori dello spettacolo.
«L’ho fatto perché non riesco a immaginare una vita senza musica, una scuola senza musica, un universo senza musica e perché so che per queste persone, quelle che ci aiutano ad ascoltarla e a farla ascoltare, le tutele non esistono. È un comparto invisibile. Non è preso in considerazione e non è calcolato. Penso che a volte l’assenza sia più efficace della presenza».
Come mai?
«Perché il silenzio pesa di più di un triste concerto per i diritti negati in cui poi il merito delle questioni sollevate cede regolarmente il passo al chiacchiericcio inutile sulle star. Leggi i giornali e trovi le solite cose: “Quello ha suonato bene”, “Quello è vestito meglio”, “Quello è invecchiato”, “Quell’altro ha cantato, ma si vedeva che aveva bevuto”. Da esibizioni di questo tipo, consessi che servono più al gossip che alla sostanza delle cose, mi sono sempre tenuto lontano. Per questioni del genere, al limite, meglio dei buoni avvocati. Sa cosa ho detto ad alcuni giovani colleghi che hanno partecipato al primo maggio? “Se sei andato facendoti pagare sei un crumiro, se hai suonato senza farti pagare invece sei un coglione”. È il momento di fare altro: di gesti simbolici che spieghino a chiare lettere che questo è un lavoro. Come le dicevo, i politici da soli non lo capiranno mai. Per loro la musica è un diversivo per far cantare la gente sui tetti, per tenere buoni i ragazzi con gli appelli dei volti noti, per agitare la retorica dei buoni sentimenti, per dire andrà tutto bene».
Non andrà tutto bene?
«Ma dove cazzo le sembra che vada tutto bene? Va bene per le persone che lavoravano con i concerti e ancora non sanno come, quando e se potranno ricominciare? O per quelle che sono state abbandonate senza lo straccio di un sussidio?».
Come mai la politica non si occupa della musica?
«È una diffidenza che nasce da un pregiudizio. Ricorda quel ministro che diceva che con la cultura non si mangia? Per alcuni politici noi siamo strafortunati: qualcuno ancora ci batte le mani mentre a loro tirano i pomodori. Sembra che dicano: “Ma che cosa volete dalla vita voi che avete tutto a iniziare dagli applausi? Non vi dovete lamentare, ma essere allegri”. Purtroppo chi non riesce a pagare le bollette o a fare la spesa tanto felice non può essere».
Intanto, mentre i grandi concerti sono fermi, ripartono le piccole esibizioni.
«La riapertura è più fittizia che reale, più morale che vera. Chi va a fare i concerti? Chi ha un pubblico più limitato e fa piccole esibizioni da non più di mille persone. Esiste un mondo che – avendo iniziato con un pianoforte e una chitarra sulla spalla – conosco benissimo e rispetto profondamente. E ne esiste un altro che suona con orchestre composte da decine di persone e non può più esprimersi. È grave. È come impedire lo sviluppo naturale di un’arte, sottraendo i colori ai pittori e il marmo agli scultori».
C’è l’invisibile barriera del virus. Ci sono le mascherine. C’è il distanziamento sociale.
«Il danno più grave, ancora una volta, è culturale. Non entro nel merito dell’utilità della mascherina, ma so che ha creato un immenso distanziamento. È il burqa dell’Occidente. È una cosa che ti porta lontano dagli altri. È una difesa, ma anche un manifesto di ripulsa. È come dire “non mi fido di te”. È una nuova religione, la mascherina, e dietro non ha la croce, ma il dio della paura. Usciremo davvero dalla pandemia soltanto quando ce la toglieremo».
Quarantacinque anni fa, all’epoca del suo primo tour, le mascherine non esistevano.
«Quello dei concerti di allora era un altro pianeta. Il mio impianto voci Semprini lo sistemavo direttamente io con gli amici. E poteva capitare addirittura, credo fosse il 1971, che Pino Daniele mi aiutasse a scaricare il pianoforte dal furgone per un concerto con De Gregori a Cinecittà. Ognuno di noi prima di andare sul palco ha vissuto dietro il palco e l’ha montato, quando c’era, perché noi abbiamo anche fatto concerti senza palco».
Quanto le pesa non potersi esibire?
«Mi pesa molto. Nessun concerto è uguale a un altro, vive di quell’attimo, vive di sensazioni che si creano al momento, di condivisione. Il concerto si fa in tanti, poi lo puoi fare anche da casa, ma è penoso. Ho visto quello che hanno tenuto Elton John e altri grandi cantanti. A me quel tipo di esibizione fa paura. Ho sentito criticare Paul McCartney perché, a differenza di altri suoi colleghi come Mick Jagger protetti dallo studio di registrazione, era a casa sua e non aveva un buon microfono. Le uniche prestazioni valutabili sono dal vivo. La vita non passa dentro un telefonino».
Avrebbe dovuto cantare in un grande evento con De Gregori, il prossimo 5 settembre.
«A me e a Francesco dispiace tantissimo. Suoneremo il 17 luglio dell’anno prossimo, ma intanto faremo insieme altre cose. Qualsiasi mondo troveremo, lo racconteremo. E se saremo fortunati contribuiremo a crearlo».
Ha nostalgia dei primi tempi?
«Non ho nostalgia per quei tempi e non ho nostalgia per nessun tempo: vivo il tempo in cui vivo, penso al futuro e mi piace molto più quest’epoca rispetto a quella che ho trascorso prima, anche perché è stato il passato a permettermi di essere quello che sono oggi».
Il passato è un inganno?
«Prenda Sotto il segno dei pesci. È una canzone attualissima e i ragazzini infatti la leggono per quello che è: una canzone contemporanea. I miei coetanei invece non hanno fatto un salto interpretativo, sono rimasti alla loro età dell’oro e ti dicono “le canzoni vecchie mi ricordano i migliori anni della mia vita”. Io credo che le canzoni siano tutte senza tempo: è la forza del racconto poetico a renderle immortali».
Si è mai chiesto quale sia stato il suo ruolo in tutti questi decenni?
«Avere, credo, un ruolo di collegamento tra le generazioni: l’uomo attraversa le età ed è sempre lo stesso».
Lei è del 1949. Che età è la sua?
«Sa che non lo so? Forse l’età dell’imprevedibilità. Di ciò che non conosco e di cui sono ancora curioso. Come cantavo, la vita è una storia fantastica, ma anche se la mia storia è stata molto lunga, bisogna vivere con i piedi nel tempo che viviamo e provare a trarne insegnamento».
Con le sue canzoni ha fatto letteratura?
«Si fa una gran confusione tra poeta e letterato. Ogni tanto, anche non volendo, faccio poesia ma mai letteratura. Se mi dicessero che le mie canzoni sono letteratura mi preoccuperei. La poesia riguarda le emozioni, la letteratura un racconto che può essere emozionante, una cosa diversa».
Impara ancora qualcosa il signor Antonello Venditti?
«Imparo come tutti gli altri. La gente per compiacerti o perché non sa come diavolo chiamarti ti dice “maestro”. Quando lo sento vorrei uccidermi. Non sono un maestro e non sono neanche Venditti. Lo sono stato e non posso tornare a esserlo. Sono Antonello e spero di rimanerlo per sempre».