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Canada: il nuovo American dream

Prima la cittadinanza del marito era solo una scocciatura. 
Dopo lo scoppio della pandemia, invece, si è trasformata 
nel sogno di tanti: un passaporto canadese. Per fuggire

Questo articolo è stato pubblicato sul numero 43 di Vanity Fair, in edicola fino al 27 ottobre.

Che pena il mio povero marito. È sposato con me – «la persona a più alto mantenimento che abbia mai conosciuto», dice – ma, che Dio lo benedica, lo ritiene un complimento. Gli furono necessari mesi di giri logistici per potermi sposare nel dicembre 2018 e immigrare a New York da Calgary, in Alberta (che si trova a nord del Montana). Ma, poche settimane dopo aver ricevuto la carta verde, che gli concedeva finalmente il diritto di lavorare, la città si è fermata. Avevamo affrontato la primavera con così tanto ottimismo: uno dei suoi testi teatrali stava per essere prodotto per la prima volta, sarebbe stata un’anteprima mondiale. Aveva un colloquio di lavoro già fissato. E, poi, il coronavirus si è intrufolato in città. Negozi con le saracinesche abbassate, scuole chiuse, Andrew Cuomo quotidianamente in onda in tv, viaggi annullati. L’anteprima è stata cancellata, idem il colloquio di lavoro. Non c’era nessun posto dove andare, nulla da fare, eccetto ingobbirsi sugli schermi dei nostri portatili e ascoltare il clamore delle sirene delle ambulanze.

Quando è arrivato luglio con un’ondata di caldo, eravamo distrutti, e abbiamo messo a punto un piano per prenderci una pausa dalla città. Ma dove potevamo andare? Avremmo dovuto fare una quarantena di 14 giorni per essere certi di non aver contratto il virus, cosa che avrebbe reso ogni destinazione piuttosto costosa, e non particolarmente divertente.

La mia famiglia vive tra la Florida e la Carolina del Sud, che, velocemente, erano diventate potenti zone calde per la diffusione del Covid. E se anche avessimo trovato un posto dove andare, come ci saremmo arrivati? Come molte persone a New York, non abbiamo una macchina. Video di passeggeri ribelli che si rifiutavano di indossare le mascherine in aereo continuavano a essere virali sui social media, nonostante parecchie compagnie avessero optato per riempire i voli al massimo della capienza.

Già da qualche anno, essere americano non ti faceva sentire molto al sicuro, ma gli ultimi sei mesi lo avevano messo particolarmente in evidenza. Ogni scelta sembrava comportare enormi rischi. Sono incinta, il che aggiunge ancora più incertezza: i ricercatori stanno ancora scoprendo in che modo l’esposizione al coronavirus abbia un effetto sul feto, ma le donne incinte sono già immunodepresse e il loro sistema vascolare è sovraffaticato, condizione che ci rende ancora più esposte alle complicazioni legate al Covid-19.

Ma la cittadinanza di James, nostra eterna scocciatura, è diventata il nostro asso nella manica. Il mio passaporto americano, un tempo un oggetto quasi sacro, che garantiva l’accesso ovunque nel mondo, era praticamente inutile. Ma, in quanto moglie di James, potevo accompagnarlo in Canada. L’onere, per me, sarebbe stato dimostrare che ero più del mio inutile passaporto americano, che ero parte della famiglia di un loro cittadino.

La risposta canadese alla novità del coronavirus non è stata perfetta. Ma è stata significativamente migliore della nostra schifezza raffazzonata. Aiuta il fatto che il nostro vicino del nord ha una densità di popolazione molto più bassa degli Stati Uniti, il che rende decisamente più facile contenere la trasmissione. Ma le politiche bipartisan in Canada sono state abbandonate all’arrivo della pandemia, e il governo federale ha lavorato a stretto contatto con gli esperti di salute pubblica per contenere la diffusione. E ora sono terrorizzati dalla minaccia che gli americani rappresentano nei confronti della loro risposta alla pandemia. Il Canada e gli Stati Uniti condividono il confine più lungo al mondo, e da marzo è stato chiuso, una decisione che vede d’accordo oltre otto canadesi su dieci, secondo un sondaggio dello scorso luglio.

Un po’ fa venire i brividi. Se fossimo stati ancora impegnati in una relazione a distanza, James e io saremmo rimasti separati fino a data da definirsi o, come qualche coppia, saremmo fuggiti insieme per poter continuare a vederci. Invece, a metà luglio, abbiamo deciso di scappare nella casa dei suoi genitori nella campagna dell’Ontario, dove avremmo prudentemente potuto mantenere il distanziamento sociale dai miei suoceri, e respirato un po’ di aria fresca. Il cottage si trova in una parte del mondo così disabitata che avremmo potuto camminare all’aperto senza mascherina, o passeggiare fino alla costa senza incontrare un’anima.

Il confine tra Stati Uniti e Canada, fino a oggi, era stato intenzionalmente «permeabile», consentendo di viaggiare da un Paese all’altro senza visto. I canadesi possono risiedere negli Stati Uniti per 90 giorni senza visto, gli americani potevano fare lo stesso per sei mesi. Eppure, il controllo dei passaporti mi mette i brividi, non importa in quante occasioni lo abbia già fatto.

La prima volta che sono andata a trovare James, un po’ tesa all’idea di viaggiare attraverso due fusi orari per incontrare qualcuno con il quale ero stata «accoppiata» la prima volta su Tinder, ho fatto fatica a rispondere alle domande del funzionario dell’immigrazione canadese nella sua uniforme rossa: «Chi era questa persona che andavo a incontrare?». «Qual era il motivo del mio viaggio in Canada?». Dopo alcuni viaggi, dissi che era il mio ragazzo, anche se con lui non avevamo mai parlato di come definirci l’uno per l’altra. È venuto fuori che lui faceva lo stesso quando veniva in America. È buffo, ma anche un po’ sgradevole: in una relazione internazionale, le guardie di confine sono al corrente dei dettagli intimi delle tue relazioni, particolari che non ci eravamo ancora svelati fra di noi, e neppure a noi stessi. Ma se era destabilizzante attraversare il confine prima, questa volta è sembrato molto più apocalittico.

Al momento del check-in, abbiamo scoperto che la compagnia aveva interrotto la tratta perché i passeggeri erano pochissimi. Toronto-New York sembra un collegamento ovvio da mantenere, eppure era deserto. Alla fine, per il nostro viaggio verso casa, ci hanno prenotato su un volo della Delta con scalo a Detroit.

L’aeroporto di LaGuardia era desolatamente vuoto, eccetto per i lavoratori dello scalo, che disinfettavano mestamente ogni superficie sul loro cammino. C’erano 15 persone sul nostro volo, e a tutti hanno misurato la temperatura con un termoscanner prima di farci salire a bordo. L’assistente di volo che ci ha accolto al nostro ingresso indossava visiera protettiva, mascherina, guanti e un camice da ospedale usa e getta.

A due passeggeri è stato impedito l’imbarco perché non erano cittadini canadesi, sono stati lasciati al gate a discutere con un impiegato della compagnia.

Al controllo passaporti, chi aveva documenti americani non godeva più di una dispensa speciale per accedere alla coda veloce e, siccome James era con me, abbiamo dovuto aspettare, mantenendo il distanziamento sociale, che un funzionario dell’immigrazione ci parlasse.

I passeggeri, con mascherine e visiera protettiva, aspettavano in file che si snodavano lungo i corridoi e gli angoli.

Avevamo in mano i questionari compilati in aereo con le informazioni su dove e come avremmo trascorso la quarantena, così come i nostri contatti in modo da poter essere rintracciati. Il funzionario alla scrivania ci ha chiesto prove del nostro matrimonio, che avevamo sotto forma di una copia del nostro certificato di matrimonio (ha declinato l’offerta di guardare le foto delle nozze che avevamo con noi). Per un istante sono pure andata nel panico, avrei voluto avere con me il certificato originale, temevo che la copia non bastasse. Era come essere dentro Casablanca con qualcuno che dice soltanto: «Documenti, prego». Ma bastava così. Siamo entrati nella lounge degli arrivi, dove un Tim Hortons (catena canadese di caffetterie, ndr) serviva ciambelle come se fosse tutto assolutamente normale.

È quello che ci ha colpito del Canada: il fatto che tutto sembrasse come al solito. New York si era sentita chiusa e invasa dal silenzio, nonostante nell’estate la vita e gli eventi culturali fossero ripartiti negli spazi all’aperto. Ma, mentre guidavamo fuori da Toronto nella campagna dell’Ontario, ho avuto la sensazione che il mondo fosse ancora rigoglioso. La gente indossava mascherine e c’erano cartelli che ricordavano di lavarsi le mani e il distanziamento sociale dappertutto. Eppure le persone non sembravano spaventate come lo erano state a New York per tutti quei mesi. Ci siamo fermati a un McDrive di McDonald’s parecchie miglia a nord di Toronto. Ho visto come un giovanissimo impiegato chiedeva ad alcuni ragazzi che erano appena entrati nel fast food di aspettare in coda fuori per mantenere al minimo la capienza all’interno. La velocità con cui quei ragazzi obbedivano – il loro sentirsi insieme, fra di loro, fra di noi, implicito in quel gesto – ha sciolto il mio piccolo cuore americano. Mi sono resa conto che stavo aspettando la manifestazione di un qualche genere di conflitto. Ma, per lo meno qui, non ce n’era nessuno.

Abbiamo trascorso un mese in Ontario, e ogni volta che parlavo del nostro viaggio a colleghi o amici, loro ridevano e chiedevano: «Potete restare là?». Era lo stesso tipo di reazione dei canadesi che incontravamo, e che guardavano alla nostra malattia nazionale, il Trumpismo, con un’aria sospesa tra preoccupazione e commiserazione. Anche nelle notizie alla radio c’era incredulità nel raccontare gli Stati Uniti, riportando dei no-mask e dei teorici del complotto con le vocali canadesi strascicate e una crescente perplessità.

Saremmo potuti restare – saremmo dovuti restare! – ma non lo abbiamo fatto. New York è ancora la nostra casa, per ora.

Non è il caso di una mia amica, la giornalista e romanziera Chelsea G. Summers, che ha sposato uno svedese nel 2017. La Svezia ha regole severe per l’immigrazione, persino quando si tratta di coniugi: lei ha avuto il permesso di vivere là soltanto lo scorso maggio, al culmine della pandemia. Ma trasferirsi era necessario: dopo aver perso il lavoro negli Stati Uniti, aveva bisogno di assistenza sanitaria. «Ho ricevuto l’assicurazione sanitaria nel momento in cui mi hanno consegnato il documento d’identità svedese», dice con orgoglio.

C’è voluto fino ad agosto per venire a capo delle restrizioni legate alla pandemia e realizzare i suoi progetti di viaggio. Si è trasferita circa due settimane fa.

Anche se l’approccio della Svezia al coronavirus è stato al centro di polemiche, Summers si sente più al sicuro là che negli Stati Uniti. «Gli svedesi sono estremamente rispettosi della legge», spiega. Se lo Stato decidesse di imporre l’uso delle mascherine, non ha dubbi che sarebbero immediatamente adottate dalla popolazione. E, nel frattempo, ci sono altri benefit. «In un paio di anni, se voglio, posso andare in pensione», dice. «Come scrittrice, è una bella cosa. Dovevo darmi da fare con lavoretti mentre ero impegnata in un nuovo progetto. Era una scocciatura enorme, soprattutto ora che l’industria editoriale va di nuovo male».

Fuggire dagli Stati Uniti era un premio di per sé. La discussione su Trump era stancante, e Summers voleva andarsene. «L’America è una discarica in fiamme in questo momento. Mentre si va verso le elezioni, trovarsi là è spaventoso». I suoi dubbi sul fatto che New York ritorni alla normalità riflettono le mie paure. «In inverno, se non puoi andare al ristorante, nei musei, al cinema, se non ti è consentito vedere uno spettacolo, perché pagare così tanto per un appartamento? Comunque, a lavorare in ufficio non ci stai andando», fa notare.

È un ragionamento convincente, una delle cose alle quali penserò nei prossimi mesi e anni. Non voglio abbandonare la mia comunità, per una questione di principio, ma anche perché mi piace stare qui. Ma tra gli elicotteri in volo e nessuna possibilità di stare insieme al chiuso, sembra che la vita sia stata lentamente espulsa dalla città, e noi con lei. Spero che New York tornerà a essere la stessa di prima, presto, e che anche l’America cominci ad assomigliare di nuovo al Paese in cui voglio vivere, invece di quel che è diventata oggi. Sono consapevole che la maggior parte delle persone non ha neppure vagamente una piccola parte delle opzioni di cui dispongo io. Ma non posso negare che mi sento più al sicuro, tranquilla e felice sapendo di avere il massimo dei privilegi: la possibilità di andarmene. È come ricevere un paracadute d’emergenza come regalo di nozze. Grazie, tesoro!

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