Paul Bettany: «Il segreto di mio padre»
Questo articolo è pubblicato sul numero 48 di Vanity Fair in edicola fino al 1 dicembre 2020
A vederlo alto, biondo, ricco e famoso, oltre che sposato con una delle donne più affascinanti del mondo, l’attrice Jennifer Connelly, con cui ha avuto due figli (Stellan, 17 anni, e Agnes, 9, mentre il più grande Kai, 23, è frutto dell’unione dell’attrice col produttore David Dugan), si potrebbe pensare che la vita di Paul Bettany sia stata un susseguirsi di momenti felici, impreziositi da una carriera che lo ha visto in pellicole indimenticabili come A Beautiful Mind, Master and Commander, Dogville e di recente, stella tra le stelle, negli Avengers, con il ruolo dell’androide Vision. Ma quando lo si incontra per parlare del suo ultimo film Uncle Frank, disponibile su Amazon Prime Video dal 25 novembre, si scopre che anche lui, come il protagonista, ha avuto diversi traumi da superare, a partire dalla tragedia che ha segnato la sua vita: la perdita del fratello minore, morto a 8 anni, quando lui ne aveva 16. «Quell’evento ha fatto andare in pezzi la mia famiglia e io, che non stavo affatto bene con la testa, ho lasciato il college, sono scappato dalla periferia dove abitavo per tornare a Londra dove ero cresciuto, e mi sono messo a suonare la chitarra per strada per guadagnarmi da vivere. Mi piaceva suonare, ma mi vergognavo a cantare le mie canzoni di fronte a un pubblico, e quindi non potendo diventare una rockstar, mi è venuto in mente che mi piacevano le recite scolastiche e mi sono iscritto ad arte drammatica: veicolare le emozioni negative di quegli anni in qualcosa di creativo e positivo mi ha salvato», racconta l’attore, ospite del festival Vanity Fair Stories (Vanitystories.vanityfair.it).
In Uncle Frank, Bettany interpreta lo zio del titolo, un professore gay che non ha mai fatto coming out con la famiglia, e che ritorna a casa per il funerale del padre, trovandosi a fare i conti coi fantasmi del passato e riportando alla luce il dolore per la perdita di una persona amata. Un evento raccontato con una scena di disperazione davanti a una tomba, in cui Paul non ha potuto fare a meno di pensare al fratello che non c’è più: «Per me l’unico modo di recitare è attingere a ricordi ed emozioni personali», racconta. «Ma se a 20 anni sei pronto a metterti in gioco pur di dimostrare che sei in grado di affrontare qualsiasi scena, a 49 inizi a pensare che deve valerne la pena, perché poi torni a casa e hai a che fare con quel dolore per un po’».
Mediare tutto questo attraverso la recitazione non è almeno un po’ terapeutico?
«Lo è solo nella misura in cui veicolo le emozioni spiacevoli in qualcosa di creativo, ma non mi fa sentire meglio. Per me è come toccarsi una ferita: uso le emozioni, ma non le elaboro. Lo so bene, perché ho passato anni in terapia per curare la mia salute mentale, per esempio per imparare a non proiettare le mie nevrosi sui miei figli: mio fratello è morto cadendo mentre si arrampicava e così quando ho avuto il mio primo figlio ogni volta che andavo al parco giochi e saliva da qualche parte mi venivano i brividi».
Nella comunità Lgbtq+ si discute dell’idea che un eterosessuale, come lei, interpreti un personaggio gay: molti sono contrari. Lei che ne pensa?
«Bisognerebbe chiederlo ad Alan Ball (regista e sceneggiatore del film, apertamente gay, ndr) che mi ha scelto. In ogni caso non avrei mai accettato il ruolo se non l’avessi sentito vicino alla mia storia personale».
Che cosa vuol dire?
«Questo film parla di quelle persone che non hanno mai vissuto la propria vita in maniera autentica, per le pressioni esterne, della famiglia, della società, della morale, della religione. E io sono stato cresciuto da un padre (l’attore e insegnante teatrale Thane Bettany, ndr) che a 63 anni ha rivelato la propria omosessualità, ha vissuto una relazione con un altro uomo per vent’anni e dopo la morte del suo compagno, ha fatto marcia indietro: per via della sua fede, non è riuscito a piangerlo pubblicamente ed è stato risucchiato nella menzogna. È morto negando la propria omosessualità. Interpretando Frank ho cercato di immaginare cosa sarebbe accaduto se mio padre non avesse dovuto sopportare quel senso di vergogna per tutta la vita».
Il film è ambientato negli anni Settanta. Crede che fare coming out sia un problema per molte persone ancora oggi?
«Certo meno di prima, ma eccome se lo è! Io ho un amico che lavora nell’industria del cinema, ha la mia età, è gay e non si è ancora rivelato ai genitori».
Lo zio Frank è un mentore e un modello per sua nipote Beth, interpretata così bene da Sophia Lillis. Chi sono state le sue guide nella vita e nella professione?
«Ne ho avute diverse: la migliore amica di mia madre e poi zio Theo e zia Jill, che mi hanno trasmesso una visione della vita attraverso cui sono riuscito a superare i problemi della mia adolescenza. Da attore ho avuto alcuni miti come Meryl Streep, che però non ho mai conosciuto, anche se l’incontro fondamentale per me è stato sul set di Dogville con Stellan Skarsgård, che mi ha insegnato molto e stupito per la sua onestà e generosità. Per questo ho scelto il nome Stellan per mio figlio».
Crede che i suoi figli, con due genitori attori, vorranno seguire le vostre orme?
«Non credo vogliano recitare. Il più grande, Kai, ha scelto da tempo di diventare ingegnere aeronautico, mentre Stellan forse farà la scuola di cinema, anche se a lui interessa di più la musica. Mia figlia è ancora piccola, ma è la persona più intelligente sul pianeta: non so cosa vorrà fare, ma di sicuro salverà il mondo o qualcosa del genere (ride)».
È anche per accontentarli che ha scelto di interpretare Vision nell’universo Marvel?
«Stella e Agnes sono incredibili fan della Marvel e quindi si sono divertiti un mondo a venire sul set dei vari film. Ma il ruolo è stato una benedizione soprattutto per me. Avevo girato un paio di film di discreto insuccesso e mi era stata offerta una parte in un film che mi piaceva. Ma il produttore mi odiava perché quando ero sulla cresta dell’onda avevo rifiutato una sua offerta: era appena nata mia figlia e volevo stare con la mia famiglia. Così mi incontrò dopo una lunga anticamera per dirmi che non avrei mai avuto quel lavoro e che la mia carriera era finita. Uscii per strada pensando che forse aveva ragione, quando squillò il telefono e Joss Whedon (il regista di Avengers, ndr) mi chiese se volessi interpretare Vision nel prossimo film. Gli risposi che avrei persino portato il catering pur di esserci».
Tra l’altro sta per tornare con quel personaggio nella serie tv WandaVision, in arrivo su Disney+ dal 15 gennaio.
«È una serie davvero unica, perché è una specie di viaggio nella storia americana attraverso quella della tv, che alla fine si conclude nell’universo Marvel. Io ed Elizabeth Olsen (che interpreta Wanda Maximoff, ndr) ci siamo divertiti da morire, perché abbiamo recitato proprio come si faceva nelle sitcom dagli anni ’50, in una casa finta ricostruita in studio davanti al pubblico, e poi in quelle dei decenni successivi. Indossare il costume di Vision è un po’ scomodo, ma nessuno è mai stato così premuroso su un set come in quelli degli Avengers. E comunque non mi lamento: lavorare in miniera sarebbe molto peggio».
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Luca Argentero, la cover e i contenuti del nuovo Vanity Fair in edicolaPhoto: Brownie Harris/Amazon Studios. Paul Bettany in una scena di Uncle Frank, diretto da Alan Ball, premio Oscar per la sceneggiatura di American Beauty nel 2000.
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