Per Diana, il mito continua
Questo articolo è pubblicato sul numero 48 di Vanity Fair in edicola fino al 1 dicembre 2020
Peccato non poterla quotare in Borsa. Tra titoli atipici e obbligazioni convertibili e fondi d’investimento, farebbero un figurone le Diana privilegiate, i Bot Lady D, o le Spencer ordinarie. Del resto, chi altri ha espresso il mistero, il fascino, la fragilità, l’inadeguatezza, la malinconia, la voglia violenta di vivere, di cui Diana Spencer si è voluta ammantare durante la sua vita? Chi altri ha assunto il ruolo di protagonista di una telenovela super Beautiful che ha per titolo Diana, facci sognare? Chi altri ha inventato per il trono monarchico la bellezza moderna, la disponibilità femminile a divertirsi in maniera libera, gioiosa, erotica, sfuggente, volgare, quindi autentica, scandalosa, quindi ingenuamente perversa? La sorte atroce e la morte precoce della Principessa Cuorinfranti è stato – su, ammettiamolo – un grosso affare per tutti. A partire dalla corona britannica. Negli ultimi secoli l’aristocrazia di Buckingham Palace ha espresso, in quanto a originalità trendy: un abito a quadrettoni divenuto famoso perché lo indossava il principe di Galles, le «English nannies», arpie che educano i vostri marmocchi con piglio militare, e soprattutto l’immortale Beghina Elisabetta, diventata ormai un ologramma.
Dopo aver fornito per anni ai rotocalchi copertine e vendite inenarrabili, l’affaire Diana Spencer non poteva non trasformarsi in una cuccagna anche per Netflix con la fototonica serie The Crown. È stato senza dubbio il periodo più scandaloso, tumultuoso e turbolento dell’esistenza della monarchia britannica, quando ha fatto irruzione in casa Windsor la signorina Diana Spencer, una testolina bionda metà donna, metà beauty-case. Considerata in vita una fanciulla graziosa e ambiziosa, bollata come una persona intellettualmente legnosa, disapprovata come un personaggio mediatizzato come uno spot o una top, la corsa frenetica verso la morte le ha fatto tagliare il traguardo del Sacro Impero della Celebrità Sociale e del Divino Cuore di Tivù. E non può essere che così. Capace di rimbalzare da un letto a un panfilo, da un jet a un grand hotel, da una guardia del corpo a un miliardario arabo, da una sfilata di Versace a un lebbrosario di Madre Teresa di Calcutta, Diana ha incarnato i miti, gli errori, gli slanci e le idiozie della fine del ’900. La condizione post-moderna, il vuoto ideologico e il nulla spirituale ed emotivo impongono anche questo: che ci siano miti hard-discount. La civiltà di massa non ha prodotto e smerciato soltanto blu-jeans e telefonini. È stata ed è il più grande emporio di favole, il più forsennato rigattiere di avanzi del mito e del sacro che la storia millenaria dell’Occidente abbia messo a punto. E il motivo c’è: non sappiamo più «raccontare la nostra identità attuale, abbiamo bisogno di una “grande storia”». Siamo ansiosi di nobilitarci, «vogliamo la favola», la principessa Sissi e gli ermellini che scopano il pavimento. È il ricorrente sogno popolare di rigenerazione: dimenticare lo stereotipo realistico per perdersi nell’archetipo regale. Infatti ciò che l’elaborazione delle mitologie contemporanee raggiunge e svela non sono più la vita le opere e i miracoli bensì la Favolosa Medietà dei personaggi. Visto che non canta come Mina, non recita come Marilyn, né balla come Isadora Duncan, né scrive come Virginia Woolf, la «principessa della porta accanto» mette allora in scena una mitomania senza mito, una religione senza comandamenti, un paganesimo senza «pagherò», una monarchia senza regalità.
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