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Serena Dandini: «Prova a prendermi»

Lee Miller è stata modella per Vogue, musa di Man Ray e fotografa di guerra. Serena Dandini si è innamorata della sua storia e ne ha fatto un libro che nel titolo celebra il suo scatto più sovversivo e liberatorio

Questo articolo è pubblicato sul numero 48 di Vanity Fair in edicola fino al 1 dicembre 2020

E così la ragazza mora degli anni Settanta, come rapita da un sogno parigino e newyorkese assieme, si è innamorata della ragazza bionda degli anni Venti. Anzi,
confessa, è diventata la sua ossessione: «È stato un viaggio davvero forte», dice Serena Dandini nella luce che entra dai terrazzi fioriti della sua casa romana, «i miei amici, a un certo punto, mi hanno fatto capire: “A Sere’, ora basta eh”», ride lei, con autoironia ben allenata, da conduttrice e autrice di programmi come Avanzi, Pippo Chennedy Show, La Tv delle ragazze.

E non ne poteva più neppure sua figlia Adele, che alla fine l’ha messa su un aereo e portata a visitare Farleys House, la casa-museo nella campagna inglese dove Elizabeth «Lee» Miller, la ex modella di Vogue America divenuta foto- grafa di guerra ed entrata per prima nei lager tedeschi dopo la Liberazione, ha chiuso in anonimato la sua rocambolesca esistenza. Anni di ricerche che ora hanno preso vita ne La vasca del Fürher (Einaudi), un libro bellissimo, intrigante e rizomatico, pieno di storie e sovrastorie, in cui Serena Dandini miscela con disinvoltura consapevole la ricostruzione storica e le confessioni autobiografiche. Finché di Lee Miller, eroina di un’antesignana e sfacciata indipendenza femminile, alla fine ci si innamora anche noi: dalla violenza sessuale subita da bambina al rapporto brumoso col padre, che per medicarne l’innocenza perduta l’ha fotografata, nuda, per tutta la vita.

Dalla carriera di modella a New York al ruolo di musa e amante di Man Ray a Parigi, genio e «minotauro» che quasi la uccise e quasi si uccise, dopo averla perduta per sempre. Fino all’autoritratto più famoso. Quello che Miller si scattò a Monaco di Baviera immersa nella vasca da bagno di Adolf Hitler, al numero 16 di Prinzregentenplatz, il 30 aprile del 1945. Appoggiati sul tappetino infangato ci sono gli anfibi sporchi di fango con cui era entrata a Dachau. Il dittatore-demonio, ma lei ancora non lo sapeva, si era ucciso da poche ore nel suo bunker di Berlino: «Lo sterminio della bellezza è l’ar- ma preferita di ogni propaganda che si rispetti», scrive Dandini, «e Lee Miller, infilandosi nuda in quella vasca, compie un personale esorcismo per scongiurare il male, una vendetta artistica contro la brutalità del potere. Chi meglio di lei, che è stata la donna più bella del mondo, può sapere che proprio la bellezza è il più ambito fra tutti i campi di battaglia?».

Permette di usare impropriamente uno scambio privato?
«Prego».

Acconsentendo a questa videointervista ha precisato: «Ok, però la avverto, non sarò truccata». Perché sente la necessità di sottolinearlo?
«Eh, ma è il dramma di questo periodo, gli Skype e gli Zoom che vanno per la maggiore, mentre tu sei a casa coi capelli dritti. Un minimo di decenza ci vuole, dai».

Oppure è la donnitudine che vince sempre inesorabilmente su ogni donna.
«A salvaguardare un minimo di vanità non c’è nulla di male. Io ho sempre pensato che femminismo e femminilità possono benissimo andare d’accordo».

Lei come si è sottratta al campo di battaglia della bellezza?
«Intanto, e dico anche per fortuna, io non sono mai stata bella come Lee. E meno male, perché la bellezza assoluta, quella mozzafiato, è una grande trappola. Non a caso Miller si sen- tiva libera solo quando indossava la divisa militare, che finalmente la rendeva invisibile e giudicata solo per quel che faceva. Persino io, da ragazzina, indossavo le minigonne e i mini maglioncini ma poi mi riempivo le tasche di libri per dare agli altri l’idea precisa di chi fossi veramente. La bellezza, per una donna, è un’arma contundente».

Scrive: «Elizabeth Miller viaggia ai confini della moralità e surclassa qualsiasi gesto oltraggioso di noi ragazze degli anni Settanta, che abbiamo a malapena bruciato un reggipetto». Che cosa avreste dovuto fare, invece?
«Avremmo dovuto, specialmente noi italiane, superare il sen- so di colpa cattolico che ci ha sempre condizionate. Avevamo madri che per noi sognavano un buon matrimonio e poco di più. E sentivamo perennemente la loro voce nella testa, come accade a Woody Allen nel film New York Stories».

Lei però ha divorziato due volte.
«Non mi sono fatta bloccare, ma venivo anch’io da quella ro- ba lì. E nel libro lo confesso: c’era sempre il retropensiero che fosse tutto sbagliato, figlio del peccato. Io, della spavalderia di Lee Miller, non ho avuto neppure una lenticchia».

Romina Power, ragazza del Piper come lei, ha racconto che ai tempi si faceva l’amore alla grande.
«Io, al massimo, in quel locale ho dato una pomiciata».

Dice di aver vissuto coi suoi genitori «un medioevo di rapporti». Non le sembra un po’ ingeneroso come giudizio?
«Forse lo è. Io ero la più piccola, non dico indesiderata ma di certo non prevista. Con me, non sono stati amorosi e c’è stata pochissima intimità. Con mio padre poi a dominare è stata la conflittualità, dovuta al suo carattere prepotente e irascibile: ecco perché verso il rapporto tra Miller e suo papà, quella loro insolita sintonia ai confini del lecito, provo invidia. Sono stata ribelle in un mondo in cui non era concepibile quasi nulla: per andare a scuola dovevo nascondere le gonne corte in un sacchetto e cambiarmi sull’ascensore. Figuriamoci partire da sola e girare tra l’Iran e l’Afghanistan, come ho fatto. Alla fine, sono comunque felice di essermi riconciliata con loro, prima che fosse troppo tardi».

Lee Miller durante la liberazione di Rennes, in Francia, nel 1944. Ha testimoniato la storia come fotografa di guerra.

Lei ha mai pagato il prezzo della gelosia di un uomo, che poi, per una donna, è la più grande nemesi dell’indipendenza?
«Esattamente come Lee Miller, da una certa possessività sono sempre scappata a gambe levate. E questo deve essere da insegnamento per tutte le ragazze: quando notate quella leggera irascibilità, quel mettere becco sulle persone che frequentate, cambiate aria. Perché chi è geloso può arrivare a considerarvi oggetto di proprietà, fino agli estremi della violenza. Mi ha incuriosito molto constatare come persino all’interno di movimenti evoluti come il Surrealismo, la libertà andasse bene solo finché gli uomini la tenevano sotto controllo, solo finché le donne non arrivavano a esercitarla davvero. La carriera di muse, ragazze, spesso non è così eccitante. E il passaggio da angelo dell’artista a angelo del focolare è sempre dietro l’angolo».

Gli uomini problematici le sono mai piaciuti?
«Mai. All’impulso del “io ti salverò”, per fortuna ho sempre resistito».

E come predicavano le flappers degli anni Venti, non si è più risposata.
«Però con Lele (il compositore Marchitelli, ndr) siamo insie- me da trent’anni. Forse convivere ci ha portato bene».

Se glielo chiedesse?
«Da una parte, ormai, c’è una sorta di scaramanzia. Dall’altra, sarebbe molto dolce».

La voce materna nella testa cosa dice?
«Guardi, non le presto ascolto. In quel senso ho già dato».

Lei pensa di essere stata amata quanto la Miller?
«Penso di esser stata molto amata, sì. Ma anche qui, alle ragazze lo vorrei dire bello chiaro: quando arriva l’amour fou, quello disperato e surrealista, diffidate. Di certo è molto bello e molto letterario, e ha fatto scaturire romanzi meravigliosi come Nadja di André Breton. Ma alla fine si rivela una trappola, una prigione trasparente. Sarà che sono una ragazza pratica, ma a me piace godere le cose, sentire la joie de vivre e condividerla con la persona che amo. Dall’amore che dà disperazione, zitta zitta e a quattro zampe, sono sempre uscita».

Alle vite precedenti crede?
«No, sono troppo laica. E come diceva Corrado Guzzanti, che è il mio unico santone riconosciuto, “Dio è laico come noi”. Però credo all’influenza che possono avere le vite degli altri, la loro capacità di riflettere le nostre paure, tutto ciò che non abbiamo avuto il coraggio di portare fino in fondo».

Lei ha rimpianti?
«Nella vita ho fatto ciò che volevo. E ora ho la saggezza, e an- che la libertà, di vivere alla giornata, annusare l’aria, vedere che succede. È la mia “seren-dipity.” Che a pensarci bene, po- trebbe anche diventare un bel programma televisivo. Come mi ha detto una volta Julio Velasco, che faceva l’allenatore di pallavolo ma era anche filosofo, “nessuno potrà mai toglierci i tanghi che abbiamo ballato”».

Negli ultimi anni della sua vita la protagonista nasconde in un sottotetto ogni testimonianza del suo passato. Anche la sua soffitta trabocca?
«Sì, altra cosa che mi lega abbastanza a lei. Ho scatole dove tengo tutti i premi, che per nulla al mondo esporrei in casa. E ne avevo decine con le registrazioni dei miei programmi, supporti che sono ammuffiti e ho dovuto gettare via. Quando le chiedevano di organizzare una mostra, Lee mentiva sempre, raccontando che tutti i suoi rullini erano andati distrutti durante il bombardamento di Londra. Capisco il suo punto di vista. Bisogna guardare avanti».

Tiene in soffitta anche il Telegatto vinto per Avanzi?
«Quello chissà dov’è finito, ce lo giravamo tra noi e poi l’ho perso di vista. Pensi che quando andammo a ritirarlo, salimmo sul palco con un trasportino vuoto per mici, e lo portam- mo via così. Eravamo un gruppo di matti».

Perché le piacciono tanto i cimiteri?
«Ah, son luoghi meravigliosi. Sono persino stata in Messico durate el dìa de muertos, nella regione di Michoacán, quando nei campisanti si beve tequila a fiumi, si balla, si cucinano i piatti preferiti dei defunti. Una specie di rave tra i fuochi fatui».

Il suo preferito a Roma?
«Quello Acattolico di Testaccio, dove ci sono Gramsci, Gad- da, Gregory Corso e John Keats».

Si sarà mica prenotata un posto.
«In caso, preferirei Parigi, Montparnasse».

In uno dei suoi libri precedenti indagava la relazione tra don- ne e fiori. Lei quale sente di essere?
«Una rosa. Perché è generosa e anche senza cure, negli inverni gelati, rifiorisce a ogni primavera. Tra l’altro, c’è un ibridatore che ne sta creando una a mio nome».

Roba che neanche gli spasimanti di Lee Miller.
«Che, legata indissolubilmente alla figura paterna, non è mai riuscita a trovare un uomo che reggesse il confronto. A me, per ovvie ragioni, non accadrà mai. E questa rosa “serena” è un po’ la mia promessa di felicità».

Nella foto di cover: Lee Miller, fotografata per Vogue America nel 1928. All’inizio della sua carriera Miller • stata una modella.

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