Lupus, come si manifesta la malattia reumatologica di origine autoimmune
Lupus: ne avete mai sentito parlare? Se ne siete affetti, di sicuro; se non ne siete affetti, forse qualche anno fa, quando Selena Gomez scrisse pubblicamente sui suoi social del trapianto di rene causato proprio dal lupus.
Il lupus fa parte delle malattie reumatologiche, che nella maggior parte dei casi sono di origine autoimmune. È dovuto a un’attivazione incontrollata del sistema immunitario che comporta un’infiammazione dei tessuti dell’organismo. In Italia sono circa 60 mila le persone che convivono con una diagnosi di lupus e si stimano quasi 1500 – 2000 nuove diagnosi all’anno.
«Il lupus è una malattia autoimmune sistemica cronica che può interessare più organi e apparati – spiega la professoressa Marta Mosca, Direttore Unità Operativa di Reumatologia – Azienda Ospedaliera Universitaria Pisana e Responsabile della Lupus Clinic della U.O – Spesso causa stanchezza, dolori articolari, manifestazioni cutanee, ematologiche e renali, oltre che disturbi neurologici o psichiatrici. È più frequente nelle donne in età fertile, tra i 15 e i 45 anni: in tale particolare gruppo d’età, il rapporto tra femmine e maschi colpiti è di 9 a 1. Non esistono a oggi dei farmaci che possano curare il lupus, ma quelli disponibili consentono tuttavia di controllarne o bloccarne il decorso, migliorando anche la qualità di vita dei pazienti fortemente impattata da una patologia complessa e ad andamento oscillante».
La scarsa conoscenza della patologia e il suo andamento irregolare e imprevedibile, con “inspiegabili” remissioni o riacutizzazioni non solo è fonte di paure e preoccupazioni, ma acuisce il senso di isolamento e fragilità psicologica. Da qui la necessità di diffondere consapevolezza, poiché avere pazienti ben orientati, consapevoli e capaci di collaborare in modo attivo alla gestione della cura, si traduce nel superamento degli effetti fisici ed emotivi più dannosi.
Da qui, è nata la campagna #MyLupusStory, iniziativa realizzata dal Gruppo LES Italiano in collaborazione con GSK, per promuovere l’empowerment dei pazienti, favorire una migliore conoscenza della patologia e quindi migliorare la vita quotidiana con il lupus. Gli obiettivi? Diffondere una maggiore conoscenza del lupus e supportare i pazienti nella condivisione del proprio vissuto offrendo sostegno nella convivenza con la malattia.
Una delle attività a essa correlate era il concorso “Diventa protagonista e scrivi la tua Storia”, che ha visto protagonisti pazienti e caregiver che hanno condiviso le proprie esperienze dirette attraverso il racconto. Le storie di coraggio, forza e resilienza pervenute sono state valutate da una giuria, composta da membri dell’associazione Gruppo LES Italiano che ha identificato 5 storie finaliste tra quelle che meglio hanno saputo rappresentare il concetto di positività verso gli ostacoli che la patologia impone. Tra queste, ha “vinto” la storia di Roberta, che riportiamo qui sotto.
Quella della condivisione e del racconto è una necessità molto forte nelle persone con lupus poiché spesso si trovano a fronteggiare indifferenza e incomprensione da parte di chi non conosce la malattia e non convive con chi ne è affetto. Questa indifferenza contribuisce ad accrescere il senso di solitudine dei pazienti, spesso molto giovani.
«#MyLupusStory ha rappresentato uno strumento importante per far luce su questa patologia e per sottolineare quanto sia importante il supporto, soprattutto emotivo, ai pazienti. Può capitare che noi medici dimentichiamo che, accanto alle terapie farmacologiche, non deve mai mancare un supporto di tipo psicologico nel percorso assistenziale – ha affermato la dottoressa Francesca Romana Spinelli, Reumatologa della Sapienza Università di Roma e presso la Lupus Clinic – L’iniziativa è stata importante anche in ottica di prevenzione perché ha contribuito a far conoscere il lupus anche alla popolazione generale. Grazie a consapevolezza e conoscenza, possiamo arrivare a diagnosticare precocemente la patologia e quindi trattare in maniera adeguata e più tempestiva i sintomi».
La storia di Roberta, 29 anni, malata di lupus da 15 anni
Roberta è una giovane donna, che convive con il lupus da 15 anni: «Correva l’anno 2006. Era agosto. Ero un’indistruttibile quattordicenne a Disneyland Paris. Sfortunatamente, proprio in quel periodo, un suo ingranaggio si è incastrato, il sistema corpo si è rivelato difettoso e ha danneggiato proprio il suo stesso fulcro vitale: il cuore e i polmoni. Ho cominciato ad avvertire delle forti fitte al petto proprio mentre mi scatenavo sulle montagne russe.
Da lì, nell’arco di un mese una cascata inarrestabile di eventi mi ha travolta: il ricovero all’ospedale pediatrico, la pericardite, la pleurite, la diagnosi finale, il bombardamento di farmaci e le parole più difficili da inghiottire: “non potrai guarire”».
Una malattia debilitante, di cui Roberta non ha mai parlato volentieri: «Da adolescente, fingevo una vita normale, nascondevo i farmaci anche alle amiche più strette e non parlavo a nessuno dei sintomi, dei day hospital e delle mie paure. Tacevo le fitte al petto, la stanchezza, i dolori articolari. Nel mio mondo venivo considerata l’Irriducibile. Un’esplosione di energia. Quella che continuava a ballare anche a musica spenta».
La verità è che Roberta stava vivendo una tregua chiamata remissione di malattia. «In questo spazio vitale ho costruito, mattoncino dopo mattoncino, la mia vita felice. Ho intrapreso un percorso universitario, mi sono laureata con la massima soddisfazione e ho cominciato a lavorare come Logopedista. Non contenta, ho intrapreso un altro percorso, quello dell’Osteopatia, giunto ormai quasi al termine. Sono andata a vivere per conto mio in una casa vicino alla mia famiglia arredata con creatività. Infine mi sono innamorata di un ragazzo svitato almeno quanto me, da tre anni è con lui che organizzo feste in maschera, viaggi e montagne russe. Senza fitte stavolta».
Purtroppo due mesi fa la bestia si è risvegliata e Roberta è stata ricoverata d’urgenza. Diagnosi: miopericardite. «Il ricovero in isolamento Covid è stato devastante, mi ha piegata psicologicamente e fisicamente ma lo sconforto è durato un solo attimo. Per la prima volta, nella corsia isolata dell’ospedale, probabilmente nel più cupo momento della mia vita, ho sentito l’urgenza di scrivere, per confessare al mondo e riconoscere a me stessa, una volta per tutte, che la vita è spesso stata una dura guerra e io non ho mai avuto paura di lottare.
Ho buttato giù delle righe sul telefono e le ho pubblicate su Instagram sotto la foto del reparto in cui mi trovavo. Quella foto social non era la solita “acchiappalike”, ma un modo per osare, mostrarmi e ringraziare. Da quando ho premuto INVIO sul telefono mi sono sentita libera. Libera di parlare apertamente della malattia. Non so come gli altri mi vedano ora, ma so come mi vedo io: una guerriera silenziosa con un coltello tra i denti e lo stereo in mano, pronta a combattere e a far baldoria per festeggiare la vittoria».