L’estate dell’amore e dell’empatia
Questo articolo è pubblicato sul numero 26-27 di Vanity Fair in edicola fino al 6 luglio 2021
«Ciao Simone, non è la prima volta che ti scrivo ma stavolta non so se troverò le parole giuste. Ci provo: da diversi numeri della rivista mi pare di aver capito che sei gay. Naturalmente una vita tua che io rispetto profondamente, anche se per l’età che ho la mia base culturale è stata inevitabilmente omofoba e addirittura razzista. Credo, spero, di esserne uscita: rispetto profondamente la diversità e diffido di questa parola. E allora? Ecco, mi fai tu sentire “diversa” perché etero, pare che me ne debba vergognare, in quanto tale non ho meriti, stanno tutti dall’altra parte. Insomma, siamo passati da un eccesso all’altro. I “normali” non hanno niente da dire, non sono nessuno. Bisogna essere almeno “ambigui” (bruttissima parola) per significare qualcosa. Mi sento a disagio, anche perché non so se sono riuscita a farmi
capire. Ti saluto, Alessandra».
Ho ricevuto questa mail qualche giorno dopo l’uscita dello scorso Vanity Fair, un numero dedicato al mese del Pride e più in generale alla celebrazione e al racconto delle diversità che ancora oggi vengono discriminate, combattute, disprezzate o comunque non capite. In quelle pagine non si parlava solo della comunità LGBTQ+, ma di tante altre diversità (anche di persone eterosessuali) che oggi, a mio parere, hanno molto da insegnarci. Mi sono sempre chiesto se sia necessario appartenere a una minoranza o a una maggioranza oppressa per capirne le esigenze, il dolore, le possibilità di riscatto. La risposta migliore che ho trovato è che no, non bisogna essere gay per capire gli omosessuali, né persone disabili per comprendere che cosa significhi vivere con una disabilità. Io, per esempio, non sono una donna, ma
lotterò con ogni mia forza per favorire in ogni modo il cammino di riconoscimento della parità di genere con gli uomini.
Perché, alla fine, sono profondamente convinto che ciò che serve non è essere qualcosa o qualcuno, ma più semplicemente imparare a provare empatia. È l’empatia che ti aiuta a capire la diversità. È l’empatia che ti fa intuire quanta ricchezza ci sia in tutto ciò che è diverso da te. E qui arrivo alla nuova copertina di Vanity Fair, con i giovanissimi Giulia Stabile e Sangiovanni. 19 e 18 anni, vincitori di Amici 20, lei ballerina, lui cantautore da record di ascolti. Li abbiamo scelti inizialmente perché volevamo celebrare la prima estate libera, leggera, un preludio – si spera – di uscita dalla pandemia. Insieme a loro, poi, abbiamo condotto un’inchiesta sulla Generazione Z e sul rapporto che ha con l’amore, con il sesso. Il risultato, totalmente inaspettato, non è una guida ai costumi affettivi e sessuali giovanili, ma una lezione di coraggio a essere diversi e mai conformi, a non avere paura di accettare le proprie e altrui diversità, ad amare contro ogni discriminazione. A essere, più
semplicemente, liberi.
Ho ricevuto molte, moltissime mail dopo il numero di Vanity Fair sul Pride. Qualcuna, devo ammetterlo, esprimeva odio e ostilità arrivando persino a essere minatoria. Altre, invece, mi hanno commosso. Questa, soprattutto: «Egregio direttore», scrive A.M., «nell’articolo in oggetto leggo che i genitori di Emanuele vorrebbero acquistare una specie di tuta per la riabilitazione motoria del loro figlio ma sono già oberati di spese non previste. Senza ledere la sensibilità della
famiglia, è possibile sapere come possiamo contribuire? Vorrei farmi carico di una raccolta fondi tra le mie amiche per tale scopo. La ringrazio anticipatamente».
Un’altra volta ancora: empatia. Perché non si tratta di essere diversi o di sentirsi diversi. Ma di capire, rispettare e imparare ad amare. Lezione che la Generazione Z sembra aver imparato molto più di chi la precede.
Buona lettura
Continuate a scrivermi pensieri, consigli e riflessioni a smarchetti@condenast.it
Per abbonarvi a Vanity Fair, cliccate qui.