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Complotti: perché crediamo alle fake news?

Il nuovo podcast di Massimo Polidoro e Valentina Petrini disponibile su Audible, smonta pezzo per pezzo i più famosi complotti con un rigoroso metodo (che sarebbe utile imparassimo tutti)

Dal Coronavirus ai Cambiamenti climatici, dai QAnon all’assassinio del presidente Kennedy, dallo sbarco sulla Luna «simulato» agli attentati dell’11 settembre, sono tanti i complotti a cui molti credono.

A volte tanto le tesi sono strampalate e surreali (come i chip che verrebbero iniettati con il vaccino del Covid) e tanto più vengono ritenute plausibili, e sorrette da un esercito di «esperti» che attraverso web e social le sostiene.

Mai come in questo periodo siamo stati esposti alle fake news e questo trend sembra destinato a crescere in futuro. Occorre quindi rispondere alla minaccia dell’infodemia (la circolazione di notizie false o non accurate) con metodo e attenzione. Per non cadere nella trappola delle «bufale», delle fake news bisogna diventare lettori e spettatori attenti, capaci di scegliere le giuste fonti, di porsi adeguate domande e di cercare la verità senza fermarsi in superficie.

È proprio quello che da sempre fanno Massimo Polidoro e Valentina Petrini, giornalisti e divulgatori, autori di un podcast dedicato proprio ai «complotti» appena uscito su Audible. Dieci episodi da mezz’ora ciascuno dove, con un approccio rigoroso ma anche di piacevole ascolto, vengono analizzate e smontate tutte le bufale che si nascondono dietro alcuni dei complotti più famosi. Abbiamo incontrato gli autori ecco cosa ci hanno raccontato.

Perché le persone credono ai complotti?
Massimo Polidoro: «Le persone spesso credono ai complotti proprio perché la realtà quasi mai è semplice e lineare. Il mondo è complesso, pieno di incertezze che possono generare ansia e paure, ed è proprio questo uno degli elementi che induce tante persone a cercare risposte semplici, anche se sbagliate. Immaginare un mondo dove un manipolo di cattivi complotta per diffondere un virus per chissà quali secondi fini (ridurre la popolazione, vendere vaccini o chissà che altro) è paradossalmente più rassicurante. Accettare il fatto che siamo in balia del caso e che magari un banale incontro imprevisto tra animali colpiti dal virus ed esseri umani può scatenare la diffusione di una pandemia come non se ne vedevano da un secolo, può essere molto più inquietante. In fondo, contro la “Spectre” o i Bill Gates e Soros di turno si può tentare di combattere, ma contro il caso e l’imprevedibile no».

Per quale ragione vengono creati falsi complotti e fake news, chi è dietro a questa macchina e con quali scopi?
Massimo Polidoro: «C’è chi lo fa per tornaconto commerciale. Creare bufale sul web è per tanti una fonte di reddito: le persone sono incuriosite da titoli sensazionalistici e a effetto, tutto ciò che accende le nostre emozioni (sia perché ci fa arrabbiare e ci indigna, sia perché ci esalta perché conferma ciò che pensiamo) ci induce a cliccare sul post o il video per saperne di più. In questo modo, chi ha creato quel falso contenuto guadagna con la pubblicità legata al numero di visualizzazioni. Altri creano bufale per diffamare i propri rivali politici o economici. Potenze autoritarie creano teorie del complotto e individuano capri espiatori per esercitare un maggiore controllo sul popolo del proprio paese e indurlo così ad accettare restrizioni sempre più forti delle loro libertà. L’unico modo per contrastare questa tendenza è quello di frenare l’emozione che ci porta a cliccare e a condividere per fermarsi a riflettere. Chiedersi da dove arriva quella notizia che tanto ci colpisce, se è una fonte attendibile, se in passato ha sempre detto cose vere, se altri hanno confermato la stessa notizia… sono le prime cose da fare. Solo dopo questa verifica, che non è sempre facile, ci si potrà fare un’idea un po’ più precisa circa la credibilità di una data notizia».

Nel podcast realizzato insieme a Valentina Petrini avete raccontato diversi complotti, qual è quello secondo te architettato meglio e quello palesemente assurdo?
Massimo Polidoro: «Le teorie del complotto campate per aria (come quelle secondo cui non siamo mai stati sulla Luna, le scie chimiche sono veleni per distruggere l’uomo o l’idea che Trump combatteva in segreto per sgominare una setta di satanisti pedofili) sono quelle che, nonostante la loro assurdità, finiscono per incantare tante persone perché – selezionando solo certi aspetti e ignorandone altri – tutto sembra incastrarsi alla perfezione. Nella realtà, invece, i veri complotti, dallo scandalo Watergate alle false armi di distruzione di massa di Saddam Hussein, ma anche i complotti messi in atto dagli artefici più micidiali, come il Terzo Reich di Hitler, che godeva di un potere mai visto prima e puntava a resistere mille anni, sono imperfetti e, dunque, falliscono. Come diceva il filosofo Karl Popper: “uno dei dati sconcertanti della vita sociale è che nessuna azione ha mai esattamente il risultato previsto. Le cose alla fine risultano sempre un po’ diverse”. Nella vita reale, insomma, la perfezione non esiste e, di conseguenza, prima o poi anche i complotti meglio architettati finiscono per essere scoperti e i loro artefici sbugiardati».

Perché si fa così fatica ad essere meticolosi nella ricerca della verità?
Valentina Petrini: «La disinformazione e le false notizie così come i finti complotti sono sempre esistiti. L’epoca in cui viviamo ha però moltiplicato le tecnologie per la loro diffusione rendendole quindi virali e in grado di raggiungere un pubblico più vasto. Non esiste una verità assoluta ma un metodo valido e solido da utilizzare per valutare la qualità delle informazioni che riceviamo. È un metodo però che deve valere sia per chi riceve le informazioni che per chi le confeziona. Dobbiamo riconoscere onestamente che anche noi giornalisti che diffondiamo notizie spesso prendiamo abbagli, non siamo sempre meticolosi nella ricerca della verità. Il nostro podcast non ha la pretesa di porsi come un programma che ne sa più di altri, ma come un format in cui conta il metodo con cui proviamo a distinguere i complotti veri da quello falso. Nella speranza che tale metodo sia utile e di servizio anche in quest’epoca di infodemia».

Perché lettori e telespettatori assumono per vero quello che viene detto?
Valentina Petrini: «Dipende da chi viene detto. Molte persone che intervisto o incontro mi dicono di credere a cose che per esempio vengono dette in tv o sui giornali. Questi canali “tradizionali” sono sempre precisi? No. Spesso la polemica, la tribuna prende il sopravvento. Credo che la popolarità dei social e delle voci della rete sia anche favorita dalla perdita di credibilità del ruolo di intermediazione del giornalista. Ruolo in cui io credo ancora».

È un problema culturale o una mancanza della scuola che non forma i ragazzi ad esercitare il senso critico?
Valentina Petrini: «Nella mia esperienza personale ho incontrato ragazzi (delle scuole superiori per esempio) molto preparati, persino più degli adulti. Dobbiamo stare attenti a fare valutazioni globali su fenomeno complessi. I giovani non guardano i media tradizionali e secondo me sono molto più attenti e capaci di distinguere le notizie di qualità da quelle false di quanto lo siano gli adulti. Poi va valutato caso per caso, notizia per notizia».

I social e il digital hanno amplificato i pericoli legati alle fake news ma sono al tempo stesso uno straordinario strumento per fare un efficace fact checking che ben pochi fanno. Abbiamo anche visto che molte fonti autorevoli prendono clamorosi abbagli. Dobbiamo rassegnarci a un’informazione mediocre?
«Assolutamente no. Mai rassegnarsi anche perché il mondo dell’informazione italiano ed estero è pieno di esempi eccellenti. Tutt’altro che mediocri. I social hanno spesso giocato con due piedi in una scarpa. Da una parte hanno promesso di combattere le false notizie dall’altra hanno continuato a utilizzare algoritmi che selezionano i contenuti e amplificano la loro visibilità sulla base del numero di condivisioni e non sulla qualità effettiva di ciò che contengono. Tutti possiamo sbagliare, saper riconoscere i propri errori o abbagli è un criterio che distingue i manipolatori dai professionisti. Quanto alla rete, più sapremo diffondere educazione alla tecnologia spiegando come funziona, come usarla e come non farsi usare meglio sarà. Io ho imparato molto dagli addetti ai lavori. Ritengo che sia fondamentale dare la parola a professionisti esperti. È responsabilità poi dell’informazione recuperare il terreno perso e aumentare gli spazi di confronto e servizio pubblico».

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