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“Il caffè di Tamer”: un’amicizia in tempo di guerra

Un caro amico scrittore cita spesso l’antico detto greco “mega biblìon, mega kakòn”, grande libro, grande male, un’apologia del componimento breve attribuita al poeta alessandrino Callimaco. Ebbene, il libro di cui vi parlo oggi è un romanzo brevissimo, un’ottantina di pagine, ma la sua scarsa lunghezza non ne inficia minimamente l’elevatissima qualità. D’accordo, ammetto – e chi mi conosce probabilmente già lo sa – di avere una certa ritrosia di fronte ai tomi voluminosi, soprattutto nel campo della narrativa. Riconosco, viceversa, che, se un romanzo è davvero bello, nessun lettore vorrebbe mai che finisse. Ma Il caffè di Tamer (Mursia, pagg 85, euro 15) di Diego Brasioli racconta una splendida storia e ha la sapienza di farlo con il numero di parole e pagine giuste: né troppe né troppo poche, una virtù sempre più rara.

Diplomatico di lungo corso, con incarichi di primo piano per la Farnesina in varie sedi estere, tra cui Pakistan, Giordania e Libano, Brasioli stesso mi ha fornito un’informazione di cui ero all’oscuro. «Il romanzo è stato pubblicato ben… 22 anni fa! L’editore ha ritenuto opportuno, dati i recenti tragici eventi mediorientali, riproporne una nuova edizione, senza che ci sia stato il bisogno di spostare una sola virgola. Mi verrebbe da dire che purtroppo è stata avvertita l’opportunità di riproporlo al pubblico perché poco, in Israele e Palestina, è davvero cambiato in questi anni, come ci dimostrano i tremendi fatti del 7 ottobre e la guerra che è seguita e che ancora divampa, con tantissime vittime, soprattutto tra i civili inermi.»

Il caffè di Tamer è un romanzo che si legge d’un fiato e che si vorrebbe comunque sul comodino accanto a sé a mo’ di talismano contro le brutture del mondo, di certo mai lontane dalla narrazione che l’autore, però, riesce immancabilmente a esorcizzare con i sapori, i profumi e i suoni del luogo, i sorrisi e gli sguardi dei protagonisti, l’orgoglio di una storia comune che solo la cecità dell’uomo tenta di scalfire. Il caffè di Tamer è una vicenda di amicizia, un’amicizia vera e oggi più impossibile che mai, fra un ebreo americano (Dori Goldman) e un palestinese (Tamer Hammoud) che gestisce un piccolo, anonimo caffè, una sorta di palestra di vita, di laboratorio di convivenza in cui le differenze sono sempre un arricchimento e mai una detrazione.

Questo romanzo andrebbe letto nelle scuole per restituire un’idea di pace possibile ai giovani. In un mondo ideale, dovrebbe essere tradotto in ebraico e in arabo per aiutare due popoli che non riescono a vivere insieme in una terra in cui ci sarebbe posto per entrambi a comprendere che la pace, non la guerra, è la normalità.

Regalatevi due ore di bellezza e leggetelo.

Nel frattempo, ecco alcune considerazioni che Diego Brasioli ha voluto fare.

Da diplomatico, ha visitato parecchie nazioni dalla pace traballante. Cosa rende così diverso e delicato l’equilibrio tra israeliani e palestinesi?

«Si tratta di uno dei conflitti più lunghi della storia moderna, con ripercussioni profonde su tutta l’area mediorientale e oltre. In questo senso, esso non è uno dei tanti conflitti che divampano nel mondo e le sue conseguenze si riverberano a livello globale»

Perché ha scelto la forma del romanzo e non quella più immediata, ovvero un memoir geopolitico?

«Il tema centrale del racconto, basato su una storia vera, non è tanto quello del conflitto israelo-palestinese, su cui non sarei stato in grado di scrivere un saggio politico che aggiungesse qualcosa alla sterminata letteratura in materia, quanto piuttosto l’amicizia possibile di due famiglie dei campi avversi anche in una situazione di conflitto. L’uso dello strumento narrativo mi sembrava ben più adatto a parlare dell’argomento.»

L’amicizia è il tema centrale della sua storia. Un’amicizia talmente bella e pulita che quasi si fatica a ritenerla possibile. Le è capitato, nella sua esperienza di vita diplomatica, di incontrarne di simili o, magari, di viverne qualcuna?

«Certamente. Spesso ho incontrato persone che riuscivano a superare le divisioni politiche, i pregiudizi, le diffidenze reciproche, per coltivare dei rapporti anche profondi di amicizia con l’altro, con il nemico. Del resto, il romanzo si basa proprio su una di queste storie vere.»

Dall’Europa, si ha la sensazione che la questione mediorientale sia una farsa, che i due principali attori coinvolti (come pure quelli che agiscono da intermediari) non siano interessati a giungere a una soluzione. Lei che idea si è fatta?

«Non mi addentrerò in analisi politiche che non mi competono. Sottolineo solo che in entrambi i campi vi sono voci ragionevoli che ricordano che una pace giusta è possibile e che richiamano la necessità di adoperarsi per il suo raggiungimento. Certo, quando parlano le armi, la voce della ragione si sente meno, è sopraffatta dal fragore delle bombe, ma esiste. L’obiettivo deve essere quello racchiuso nella formula “due popoli in due stati, per la pace”, come non si stanca di ricordare il nostro Ministro degli esteri Antonio Tajani, nel solco della tradizionale linea di politica estera dell’Italia. È compito dei governi amici dei due popoli, israeliano e palestinese, favorire questi scenari virtuosi: è la missione principale della diplomazia, e gli sforzi compiuti in queste settimana da tanti paesi per arrivare a una tregua e, in prospettiva, a una soluzione durevole del conflitto, lo testimoniano.»

Non c’è altro posto al mondo in cui tre religioni monotematiche abbiano convissuto a lungo, facendone un luogo di culto comune. Si parla sempre di ebrei e musulmani e quasi mai di cristiani. Che ruolo svolgono?

«La comunità cristiana è una componente fondamentale della società araba del Medio Oriente, in particolare in Terrasanta. Certo, si tratta di una comunità che è andata a ridursi nel corso dei decenni, ma è sempre molto vivace nel panorama sociale e culturale della Palestina e ha espresso alcuni dei più fini intellettuali di quella parte del mondo, come lo scrittore Edward Said, che con Daniel Baremboim nel 1999 fondò la “West Eastern Divan Orchestra”, l’orchestra sinfonica di giovani che ha lo scopo preciso di favorire il dialogo fra musicisti provenienti da paesi e culture storicamente nemiche.»

Come si fa a convivere con la paura, da una come dall’altra parte?

«La guerra è uno degli aspetti più tragici e terrificanti della vita umana, purtroppo. Ho cercato di raccontare come essa viene vissuta da chi ne è vittima inerme nel romanzo, apparso sempre qualche anno fa, “Le stelle di Babilonia”, a sua volta basato su fatti realmente accaduti e su mie esperienze personali in paesi in conflitto. Come scrisse nella prefazione di quel libro l’amico Gino Strada, lo sporco della guerra è la guerra, semplicemente. Se togli quello che della guerra è sporco, non resta niente. In camice o in marsina, della guerra si vedono la distruttiva, assurda disumanità, l’ottusa, impietosa ferocia

Conosco la questione palestinese superficialmente. Conosco molto bene, invece, quella nordirlandese. So quanto gli irlandesi cattolici solidarizzino con i palestinesi. Lei ha vissuto a contatto con israeliani e palestinesi. Come vedono i palestinesi le rivendicazioni degli israeliani e gli israeliani quelle dei palestinesi? Insomma, le pare che da una parte e dall’altra vi sia qualcuno che capisce che il torto e la ragione non sono del tutto unilaterali?

«Certamente, sono pochi quelli che capiscono nel profondo le ragioni degli altri, ma esistono. Anni fa ho avuto il piacere di conoscere il filosofo palestinese Sari Nusseibeh, che con il politico israeliano Yossi Beilin, ex-viceministro degli Esteri e ministro della Giustizia per il Partito Laburista Israeliano, noto per la sua partecipazione agli accordi di Oslo del 1994, ha elaborato svariati piani per una soluzione durevole della questione palestinese.»

Cos’ha pensato la prima volta che ha saputo che l’esercito israeliano aveva abbattuto la casa di una famiglia di un attentatore suicida?

«L’articolo 53 della Quarta Convenzione di Ginevra del 1949 (che disciplina la protezione dei civili in tempo di guerra e che è stata ratificata anche da Israele) prevede che “qualsiasi distruzione da parte della Potenza occupante di beni immobili o personali appartenenti individualmente o collettivamente a persone private… è vietata tranne quando tale distruzione è resa assolutamente necessaria dalle operazioni militari”. La giustizia internazionale è lì apposta per giudicare la legittimità o meno di tali azioni.»

Quanto conta davvero la religione?

«La religione, come altre forme di settarismo, gioca da sempre, nella storia umana, un ruolo nei conflitti. Che sia usata come una scusa o sia la vera causa di una disputa internazionale o interna, poco cambia. L’importante è che le persone di buon senso non si stanchino, anche con il loro esempio personale, di sottolineare ciò che ci unisce come esseri umani e di enfatizzare quanto sia sciocco chiudere gli occhi sugli altri e pensare solo a ciò che ci divide. Credo fermamente che l’azione della diplomazia, se basata su un solido sistema di valori condivisi così come incardinati in strumenti come lo Statuto dell’ONU, che non fa distinzioni tra esseri umani sulla base di razza e religione, e sui grandi accordi internazionali in materia di protezione e promozione dei diritti fondamentali, possa essere uno strumento fondamentale per raggiungere la pace.»

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