Il Miliciano di Paolo Gasparini, simbolo della diaspora degli italiani nel mondo
Il fotografo goriziano espone alla mostra ospitata all’Arsenale dal titolo “Stranieri Ovunque”. Dal 1954 in Venezuela, le sue immagini nelle collezioni del Moma e del Metropolitan
TRIESTE Nel 1954, esattamente settant’anni fa, un appena ventenne Paolo Gasparini era andato a visitare alla Biennale di Venezia, portando con sé la Leica che gli aveva inviato qualche anno prima suo fratello Graziano da Caracas. Tra i vari artisti gli capitò allora di incontrare Carlo Carrà che immortalò in uno scatto ritraendolo seduto su una panchina dei Giardini, mentre si stava per accendere una sigaretta. Inviò quella foto al pittore protagonista del futurismo prima e della metafisica poi, insieme ad una lettera alla quale Carrà rispose ringraziandolo del gentile omaggio, commosso per la nobiltà dei suoi sentimenti, augurandogli “un ottimo avvenire”.
Qualche giorno dopo Gasparini sarebbe partito per il Venezuela dove avrebbe intrapreso la sua carriera di fotografo. Oggi ritorna alla Biennale di Venezia quale artista invitato nella mostra “Stranieri ovunque”, ospitata all’Arsenale, dove sarà esposto il suo “Miliciano” cubano.
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La foto, realizzata a Trinidad nel 1961, si troverà nella terza sala del “Nucleo storico”, dedicata «alla diaspora artisti italiani che hanno viaggiato e si sono trasferiti all’estero integrandosi nelle culture locali e costruendo le loro carriere in Africa, Asia, America Latina nonché nel resto d’Europa e negli Stati Uniti - spiega Adriano Pedrosa, curatore della Biennale di quest’anno -. Artisti che spesso hanno avuto un ruolo significativo nello sviluppo delle narrazioni del Modernismo al di fuori dell’Italia».
Qui saranno esposte le opere di 40 autori italiani di prima o seconda generazione, collocate negli espositori a cavalletto in vetro e cemento di Lina Bo Bardi, architetta e designer italiana trasferitasi in Brasile, vincitrice del Leone d’Oro speciale alla memoria della Biennale Architettura 2021.
Nato a Gorizia nel 1934, Paolo Gasparini ancora oggi divide la sua vita tra Caracas, Città del Messico e Trieste e nella fotografia di quel “Miliciano” del ‘61 ancora oggi si riconosce: negli occhi del miliziano c’è la reale coscienza e tutta la determinazione di chi, con il fucile in mano, crede di poter cambiare la vita sociale e politica della sua gente. È un’opera che lo rappresenta, che figura in importanti collezioni come quelle delle Fondazioni Mapfre di Madrid e A Stichting del Belgio, insieme ad altre sue immagini di Cuba che si trovano al Moma e al Metropolitan di New York.
Ma com’era giunto Gasparini a Cuba?
«Nel ‘54 - risponde il fotografo -, prima di compiere 21 anni, avevo deciso di raggiungere mio padre e mio fratello in Venezuela che allora viveva un vero e proprio boom della costruzione e dell’architettura moderna. Iniziai così a fare il fotografo di architetture. Poco dopo conobbi Alejo Carpentier, scrittore, giornalista e critico letterario che mi invitò ad andare a Cuba con lui. Ci andai con l’idea di rimanerci 6 mesi invece mi fermai per 4 anni e mezzo. Collaborai con varie riviste, con il supplemento letterario “Lunes de Revolución”, seguii la campagna di alfabetizzazione e le attività legate alle coltivazioni della canna da zucchero. Con Carpentier realizzai il libro “La città delle colonne” su L’Avana».
Chi o che cosa l’aveva avvicinato al mondo della fotografia?
«Il primo ricordo, fortissimo, legato alla fotografia risale ai 40 giorni di Tito a Gorizia, quando avevo 11 anni e la mia casa in via Vittorio Veneto era stata occupata dai partigiani jugoslavi. Il loro comandante, di nome Dušan, un giorno chiese ai miei genitori di farmi andare con lui ai rifugi lungo il Vipacco. I miei non ebbero coraggio di dire di no. Fu la mia prima vera avventura: ad un certo punto entrammo in una casa signorile abbandonata dove notai dei bauli. “Attenzione! - disse lui - questi sono per il museo della Rivoluzione!”. Insieme a documenti, carte d’identità, c’erano montagne di fotografie di impiccati, fucilati, feriti ma anche di donne e bambini sorridenti. Ricordo di aver provato una forte rabbia ma, nell’indignazione, scoprivo la potenza comunicativa delle immagini nel raccontare il bene e il male. Capii di voler stare dalla parte del bene».
Da qui anche l’idea della fotografia intesa come racconto poi tradotta nei suoi fotomurales o nei suoi fotolibri?
«Negli anni del dopoguerra sono stati importanti il cinema neorealista e l’aver conosciuto Nereo Battello: lui mi ha fatto leggere Gramsci, Giaime Pintor, “Conversazione in Sicilia” di Vittorini dove si parla del “mondo offeso”. Questo “mondo offeso” è un’espressione assoluta che ho fatto mia, propria, che ho voluto esprimere nel mio lavoro. Dalle architetture passai a fotografare la gente, le tensioni e le contraddizioni sociali, politiche; nel ‘72 realizzai il mio primo fotolibro “Para verte mejor América Latina”, volendo unire la memoria e la storia, nella convinzione che la fotografia non è un’espressione artistica ma un discorso per immagini, una maniera di pensare».
Alla Biennale di Venezia del ‘95 ha rappresentato il Venezuela con i suoi fotomurales della serie “La pasión sacrificada”; ora vi ritorna nella mostra principale dei Giardini. Quali sono i suoi prossimi progetti?
«Sto ultimando un nuovo fotolibro che si intitolerà “Fotoculebron” dove compaiono anche i ritratti di Franca Donda che è stata mia moglie, compagna di vita e di lavoro, di Sergio Altieri e Cesare Mocchiutti. C’è l’idea di una donazione ai musei di Gorizia di circa 300 mie fotografie, molte delle quali vintage, da tradursi in una grande mostra antologica per cui aspetto ancora una risposta definitiva. E c’è un progetto nell’ambito di “Go! 25” dove intendo realizzare tre fotomurales di cui uno sui tanti bambini che ho fotografato nel mondo e che dal mondo si aspettano tanto: un mondo che invece pare andare sempre peggio».