Che cos'è la fusione nucleare. E perché la corsa per sfruttare la potenza del Sole sta finalmente accelerando
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Per il ministro Cingolani è la «soluzione di tutto», ma è davvero così? Tutte le differenze, pro e contro
Gli scienziati le rincorrono da più di mezzo secolo. È la fonte d'energia suprema, la stessa che alimenta il sole e le altre stelle dell'universo. Potentissima, inesauribile, affidabile. E pulita. Nel senso che non produce gas serra né sostanze inquinanti o fortemente radioattive. “La soluzione di tutto”, anche a detta di Roberto Cingolani, il ministro della transizione ecologica. Ma per decenni la fusione non è stata altro che un miraggio. Una fantasia che confondeva gli ingegneri a causa di sfide tecniche insormontabili. Nell’ultimo periodo, però, una serie di scoperte ha galvanizzato gli scienziati ed entusiasmato gli investitori. Qualcosa di concreto finalmente si intravede. Forse la fusione riuscirà a prendersi la rivincita sul suo parente di maggior successo: la fissione.
Le centrali nucleari di oggi infatti creano elettricità attraverso la fissione, cioè prendono atomi grandi e li dividono in atomi più leggeri. La fusione tenta di fare il contrario: prendere atomi piccoli e combinarli per formare atomi più pesanti. Nel caso specifico, si tratta di due isotopi dell’idrogeno, deuterio e trizio - facili da ottenere e virtualmente inesauribili – che unendosi forgiano un atomo di elio. Grossomodo lo stesso meccanismo che avviene al centro del sole e che rilascia enormi quantità d’energia. Basti pensare che un solo chilogrammo di “carburante da fusione” equivale a 8500 tonnellate di benzina.
Ma ciò che accade nel sole è molto difficile da replicare artificialmente sulla terra. Ecco il grande problema: i due isotopi di idrogeno in natura si respingono perché hanno cariche elettriche positive; e per convincerli a unire le forze ci vogliono temperature e pressioni altissime. Bisogna portare la materia a oltre cento milioni di gradi: a quel punto, gli isotopi perdono gli elettroni, diventano plasma, si fondono e liberano energia atomica. Questo gas bollente però va controllato. Si usano campi magnetici potentissimi per gestire il plasma in cui avviene la fusione. In sostanza sono necessarie immense quantità d’energia. E finora gli impianti a fusione non sono mai riusciti a produrne più di quanta ne consumino. Ecco il loro punto debole, ed ecco perché si è diffuso l’altro tipo di nucleare (quella a fissione).
Il più grande tentativo di fusione, del resto, va avanti nel sud della Francia da svariati decenni. Il progetto, noto come ITER, è stato finanziato da decine di governi e dovrebbe raggiungere energia netta positiva (ossia produrre più energia di quanta ne consumi) entro il 2036, assemblando atomi in un enorme reattore chiamato “tokamak”. I costi sono piuttosto alti: si parla di più di 20 miliardi di euro. Una barriera all’ingresso che ha scoraggiato molti dallo sperimentare in questa tecnologia. Ma nell’ultimo periodo qualcosa è cambiato. La novità è l’interesse crescente di investitori privati che hanno finanziato start-up ad alto potenziale. Si tratta di tecnologia più compatta, meno costosa, che tuttavia promette risultati in tempi non troppo lontani.
Commonwealth Fusion Systems LLC, una start up americana con sede in Massachusetts, ha appena raccolto più di un miliardo e 800 milioni di dollari, la più grande iniezione di capitale privato in una progetto di fusione nucleare. Investimenti da Google, Bill Gates, George Soros, Marc Benioff (ceo del gigante del cloud Salesforce) e da DFJ Growth, una società di venture capital della Silicon Valley. Il principale azionista resta comunque Eni che sostiene la start-up dal 2018, anno della fondazione in partnership con il Massachusetts Institute of Technology. Come mai tanto entusiasmo? La svolta è arrivata questo settembre. La start-up ha messo in funzione un superconduttore ad alta temperatura capace di generare un campo magnetico molto più forte di un reattore a fusione tradizionale. Una macchina più efficiente, più piccola, più economica. La prossima tappa è il 2025, quando la start-up dice che raggiungerà la tanto agognata energia netta positiva; e lo farà attraverso un impianto chiamato Sparc, più piccolo di un campo da tennis. La mossa successiva è aprire la prima centrale elettrica commerciale alimentata da fusione nucleare: se tutto fila liscio, nel prossimo decennio.
Ma non è affatto detto che Commonwealth Fusion Systems arrivi per prima. La concorrenza è agguerrita. Ecco alcuni esempi: Helion Energy, con sede nello Stato di Washington, dice che otterrà energia netta positiva nel 2024. Quest’estate è riuscita a portare il plasma, cioè la materia dove avviene la fusione, a cento milioni di gradi Celsius, la prima società privata a riuscirci. Ha appena ricevuto 500 milioni di dollari di finanziamenti, con la promessa di un ulteriore round pari a 1 miliardo e 700 milioni. Un’altra concorrente è la canadese General Fusion, sostenuta da Jeff Bezos. Poi c’è la californiana TAE Technologies, che l’anno scorso ha ottenuto 410 milioni di dollari.
In tutto, secondo i report più aggiornati, ci sono una ventina di aziende private in UK, Stati Uniti, Europa, Cina e Australia che stanno cercando di arrivare per prime al nucleare da fusione. I grandi traguardi sono due: raggiungere l’energia netta positiva e poi connettere l’impianto alle griglie energetiche nazionali. La cosa veramente difficile sarà stare sul mercato, cioè essere sfruttabili come fonte d’energia commerciale. Si respira entusiasmo, ma circolano anche voci che consigliano prudenza. Adam Stein, analista di lunga data presso il Breakthrough Institute, un centro di ricerca con sede in California, crede che in questo decennio alcune società di fusione raggiungeranno l’energia netta positiva. Altre, invece, falliranno. Daniel Jassby, fisico della università di Princeton, ha l’impressione che non tutti operino seriamente nel settore. Come se fosse una bolla dove finisce denaro che in parte sarebbe meglio investire altrove. Si mostra cauto anche Tony Donné, dirigente di EUROfusion, un consorzio di ricerca di 28 paesi. Per lui il vero obiettivo, cioè convogliare l’energia da fusione nucleare nelle reti elettriche nazionali, non è vicinissimo. “Ci vorranno ancora dai 20 ai 30 anni”, ha detto. Ma vale la pena tentare.