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Renzo Garlaschelli: «Che grande storia il mio scudetto con la Lazio 1974»

Renzo Garlaschelli: «Che grande storia il mio scudetto con la Lazio 1974»

foto da Quotidiani locali

Domenica 12 maggio 1974 è una giornata di cose straordinarie. In Italia si vota per il referendum sul divorzio. Vince il “NO”. La legge Fortuna-Baslini del 1970 che legittima lo scioglimento del vincolo nuziale resta in vigore; per la prima volta nell’Italia repubblicana il fronte governativo a trazione Dc è battuto. Domenica 12 maggio 1974 è anche il giorno della Lazio. Dopo aver sfiorato lo scudetto l’anno prima da neo promossi in serie A, ora il match ball è nelle mani dei ragazzi di Tommaso Maestrelli, allenatore gentiluomo e fine conoscitore del calcio, padre di quattro figli e di un manipolo di discoli in mutande e maglietta dove spiccano i bad boy Giorgio Chinaglia, il bomber, e Pino Wilson, il capitano.

Un ragazzo, un sogno

Tra loro c’è anche un ragazzo pavese. Ha 24 anni, si chiama Renzo Garlaschelli ed è di Vidigulfo, paesino dieci chilometri a nord di Pavia. Dopo la scuola Renzo andava a giocare all’oratorio. E ci sapeva fare. Con gli amici la domenica andava a San Siro a vedere l’Inter. Luisito Suarez e soprattutto Mariolino Corso erano i suoi idoli. A Renzo, però, più che guardare le partite, piace giocare a pallone. A 18 anni lo portano al Sant’Angelo Lodigiano in serie D. Poi passa al Como dove resta tre stagioni. Gioca all’ala, Renzo, ma è uno che in campo sa muoversi, si abbassa a centrocampo e svaria pure da mezzala. Nell’estate del 1972 viene acquistato dalla Lazio che sborsa 200 milioni per strapparlo al Como del direttore sportivo Giancarlo Beltrami, uno dei re del mercato del tempo. La Lazio è una neo promossa e si è appena privata, direzione Inter, di Peppiniello Massa, idolo della tifoseria. L’ambiente ribolle e Renzo uno sbarbato che rischia di bruciarsi.

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«Non eravamo i più forti ma in quegli anni ci siamo divertiti. I miei gol? Devo ringraziare Maestrelli e Giorgio Chinaglia»

La capitale come seconda casa

Non sarà così. Perché Garlaschelli rimarrà a Roma dieci anni e nella seconda stagione, quella dello scudetto di cui ricorrono i primi 50 anni, segnerà 10 gol in 29 partite: la metà li realizza in trasferta, tutti senza tirare i calci di rigore. Dieci gol con le difese arcigne del tempo, al cambio attuale ne fanno una ventina.

Un difensore per amico

«Renzo era tra gli attaccanti più forti in circolazione – spiega Giancarlo Oddi, stopper maglia numero 5 di quella Lazio - e lo dico perché lo affrontavo in allenamento. Chinaglia era alto e grosso, Garlaschelli aveva due gambe forti e calciava potente. Ha fatto tantissimi gol. Ti puntava e poi, in dribbling, ti lasciava lì. Uno dei migliori giocatori dello scudetto e un grande amico. Mi ha pure fatto gol quando sono tornato all’Olimpico con il Cesena. Lo marcavo io e quel balordo mi ha fregato».

«Renzo grande amico e tra i giocatori più forti di quella Lazio. Segnava tanti gol, uno dei migliori attaccanti in circolazione»

Calcio d’avanguardia

La Lazio di Garlaschelli era una squadra che, un tassello alla volta, arrivò a interpretare il calcio in modo moderno. Nei fatti un modulo 4-3-3 con Oddi marcatore centrale, Wilson, il “libero”, che usciva ad anticipare tutti, Petrelli e Martini terzini a “piedi invertiti”, collocazione che permetteva loro di “entrare in campo” a giocare il pallone con il piede buono e poi un centrocampo a tre: Frustalupi il regista, Nanni e Re Cecconi le mezze ali; in prima linea la forza d’urto era garantita dal trio delle meraviglie formato da Garlaschelli, Chinaglia e D’Amico. Formazione divenuta iconica, ma ripensata da Maestrelli dopo la sconfitta 3-1 di Torino con la Juventus alla terza giornata nell’autunno 1973 (lì giocarono ancora Facco terzino marcatore e Manservisi attaccante tattico spesso posizionato sul fantasista avversario) e che dopo alcuni aggiustamenti vedrà la luce per la prima volta a Milano nella partita finita 1-1 con l’Inter (25 novembre, gol di Chinaglia). Maestrelli fece così il salto di qualità puntando a far male agli avversari con Petrelli più portato ad attaccare che a difendere e D’Amico nel ruolo di creativo del pallone.

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«Eravamo un gruppo di pazzi»

«Quanto ci siamo divertiti in quella Lazio, specie i primi due anni - ricorda Garlaschelli al bar Roma di Vidigulfo -: eravamo un gruppo di pazzi e Vincenzino D’Amico era il più fuori di tutti. La squadra? Non eravamo i più forti. Non dimenticate mai che allora oltre alla Juventus e le due milanesi c'era un ottimo Torino».

Lo scudetto lo vinceste voi, però.

«Un passo alla volta ci siamo trovati davanti in classifica e nel girone di ritorno siamo riusciti ad andare fino in fondo».

12 febbraio 1974, battete la Juve all’Olimpico: fu quella la svolta?

«Grande vittoria. Io faccio gol subito, al 5 minuto, con un destro sporco che finisce all’angolino sul palo lungo di Zoff. Poi segnerà due volte Chinaglia».

14 aprile 1974: la remuntada contro il Verona.

«Si è romanzato su quella partita. Andare all’intervallo sotto, per di più in casa, fu un colpo. Lo accusammo. Sulla carta non c’era partita».

Davvero volevate andare nello spogliatoio per regolare i conti tra di voi e Maestrelli ve lo impedì?

«Io non volevo menare nessuno. Eravamo incazzati. Questo sì. A me sembra di ricordare che nello spogliatoio rientrammo. Ci restammo poco, poi si tornò in campo diversi minuti prima del solito ad attendere il Verona».

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Con il pubblico in delirio: quel gesto venne letto come la vostra dannata voglia di vincere. E dopo appena 4 minuti dalla ripresa del gioco lei segnò il 2-2.

«Sì. E Nanni e Chinaglia completarono il lavoro».

28 aprile, arriva il Genoa. Un assedio. Poi Garlaschelli al 43’ segna il gol vittoria che secondo un mio amico, prof alla Sapienza e laziale fino al midollo, fu il più importante di tutti.

«Se lo dice il prof, è certamente così (ride, ndr). Chinaglia con una cannonata delle sue centrò la traversa, la palla rimbalzò non so se di qua o di là dalla linea di porta. Io mi avventai di testa».

Il tap-in scudetto di Garlaschelli, insomma.

«Bella definizione. Io però ai giornalisti dissi che la palla calciata da Giorgio era già entrata».

Una balla. Non era assolutamente vero. Perché lo disse?

«Grande Giorgio. Giocare con lui non era facile, continuava a urlarmi che dovevo correre di più. Fuori dal campo, però, era una persona squisita. Le racconto un aneddoto. Ai giocatori la società dava gli abbonamenti allo stadio per famigliari, parenti e amici. Chinaglia aveva ricevuto 5 tessere vip, io due vip e tre pass per posti meno pregiati. Lui mi prese la busta dalle mani, stracciò i pass e li rimandò in sede: "Cinque tessere Vip anche per Renzo", disse».

E cosa accadde?

«Che mi arrivarono cinque tessere Vip».

Renzo, siamo arrivati al 12 maggio di 50 anni fa: a proposito, lei lontano da casa di sicuro non andò a votare per il referendum.

"Vero, ma avrei votato NO. Tutti in squadra erano per il NO. O almeno penso"

Veniamo al pre partita della sfida al Foggia. Vincendo sareste stati aritmeticamente campioni d'Italia. Vi svegliaste in ritiro all'hotel Americana e...

«Ne è passato tanto di tempo. Ricordo il nervosismo di quella mattina. Era una cosa diversa per tutti. I più tesi erano Pulici, Wilson, Chinaglia e Oddi.

Dopo il pranzo e durante il viaggio in pullman io mi sciolsi un poco. E mi è rimasta dentro fino ad oggi la luce dell’Olimpico pieno di gente dal mattino e colorato d’azzurro. Quando uscimmo dagli spogliatoi, per giocare la partita decisiva per il nostro scudetto, ero come abbagliato».

E poi?

«Che spettacolo la folla; noi invece giocammo male. Sul tabellone dell’Olimpico c’era un grande orologio. Impossibile non guardare il tempo che trascorreva. E ti saliva l’angoscia».

Nel secondo tempo, sullo 0-0, segnò Chinaglia su rigore; rigore che si procurò Garlaschelli.

«Scesi sulla destra fino alla linea di fondo, provai a saltare Scorsa, che mi stava davanti, con un pallonetto. Lui colpì la palla col braccio. Poi Chinaglia dal dischetto tirò uno straccio (ride, ndr), ma Trentini non ci arrivò. Sull’1-0 la partita non finiva mai. E io mi feci espellere, prima e unica volta in carriera, per una reazione e lasciai la squadra in dieci. Mi ritrovai negli spogliatoi a vedere la partita sui monitor della Rai».

E lì trovò Martini uscito per infortunio.

«Non ricordo bene. So solo che non ero in campo al triplice fischio. Ci fu un’ondata biancazzurra che invase prima il campo e poi gli spogliatoi».

Renzo, lei dice che nel ‘74 non eravate i più forti. Però l’anno prima, da neo promossi arrivaste terzi: vincendo l’ultima a Napoli avreste fatto lo spareggio scudetto con la Juve.

«Valutazioni che si fanno dopo. Quel campionato lo aveva già vinto il Milan che invece crollò a Verona. E la Juve a quel punto ribaltò lo svantaggio all’Olimpico contro la Roma. Ma non abbiamo mai pensato di aver buttato lo scudetto a Napoli. E nessuno al rientro a Roma ce lo fece pesare. In verità quel 20 maggio 1973 al San Paolo giocammo una brutta partita. Che perdemmo nel finale».

Dodici mesi dopo però arriva la gioia più grande. Oggi si direbbe che eravate nel pieno di un ciclo.

«È stata una grande storia. Certo che lo sento mio quel tricolore. Ma preferisco dire che fu il nostro scudetto».

Riavvolgiamo il nastro: il sogno di fare il calciatore in serie A inizia nell’estate del 1972.

«Qualche mese prima arrivo quarto in B col Como, ma in serie A ci vanno le prime tre. La Lazio è seconda - dopo la Ternana e davanti al Palermo - e risale subito in A dopo la retrocessione del 1971».

E per riforzarsi vanno a prendere Renzo Garlaschelli da Vidigulfo.

«All’inizio fu dura. Non credevo che avrei potuto fare il calciatore professionista ai massimi livelli. Arrivai a Roma, trovai una città fantastica. Appena potevo, andavo a fare passeggiate per scoprirla. Partimmo male in coppa Italia, però, e fu subito contestazione».

Quanto tempo impiegò a conquistare la fiducia dell’ambiente?

«Dentro lo spogliatoio, i veterani come Chinaglia e Wilson, a noi nuovi ce la fecero sudare la considerazione. Più facile sul campo: alla seconda di campionato segnai a Firenze il gol vittoria con un tiro dal vertice destro dell’area infilando l’incrocio dei pali opposto. Poi a marzo firmai il derby con la Roma».

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Solo gol su azione, tanti in trasferta (in serie A 23 su 49): 17 reti nei primi due anni in 58 presenze; contro quelle difese, roba da bomber di razza.

«Devo ringraziare l’allenatore Maestrelli. A Como tornavo ad aiutare a centrocampo, lui mi vide punta. E mi mise sulla destra, dalla metà campo in su. E mi disse: “Devi giocare per Chinaglia a fianco di Chinaglia”. Io lo feci».

E segnò anche tanti gol di testa, da centravanti.

«Perché Giorgio spostava le cose dentro l’area. Portentoso. E io trovavo gli spazi».

Torniamo a Maestrelli: si parla tanto della sua umanità, ma lui era anche un ottimo allenatore. A chi lo paragonerebbe nel calcio di oggi?

«A nessuno. Maestrelli era Maestrelli. Lui sapeva dove metterci in campo, ma soprattutto sapeva come prenderci, uno per uno. Con lui eravamo tranquilli. Soprattutto Giorgio (Chinaglia, ndr)».

Con la sua malattia e la sua morte nel 1976, quella Lazio cominciò a vacillare.

«Quando tornò per portarci alla salvezza, ricordo un uomo provato dalla malattia. Non so come abbia fatto ad avere la forza per tornare. Forse lo ha fatto perché serviva anche a lui, per sentirsi vivo. Un colpo durissimo anche fu la morte di Luciano Re Cecconi».

Cosa ricorda di quel terribile giorno di gennaio del 1977?

«Tornai a casa, accesi la televisione e vidi la foto del Cecco al telegiornale. A quei tempi non si parlava di calcio fuori dalle trasmissioni sportive. Sentii del fatto accaduto dentro quella gioielleria, ma non capii o forse non volevo crederci. Così telefonai in società e la segretaria, Gabriella, mi disse: "Hanno sparato a Luciano, è morto". Fu un colpo durissimo per tutti».

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Quella storia, quella della Lazio intendo, finì in maniera anche drammatica: poi si cambiarono gli allenatori, vennero altri giocatori e ci furono anni difficili. Dei protagonisti di quei primi anni se ne andarono tutti o quasi tutti. Lei restò per 10 stagioni, invece. Le ultime due in B. Non si è mai pentito?

«Non ho rimpianti, se è questo che mi chiede. Capitò che Sandro Mazzola mi dicesse “perché non vieni all’Inter?” Chiesero mie notizie la Fiorentina e il Bologna. E nel 1976, quando andò al Cesena con Frustalupi, Oddi mi chiamò: “Città tranquilla, il mare è vicino. Vieni”. Ma Roma era bellissima».

Cito da “Le Canaglie”, il libro di Angelo Carotenuto sulla storia di quella Lazio: “Renzo da Vidigulfo era un reverendo del puttanesimo bello come Billy Bis, eroe a fumetti dell’“Intrepido”. Par di capire che a Roma lei se la passasse proprio bene.

«Stupidaggini, mi creda (ride ancora, ndr)».

No, non le credo Renzo (rido io, stavolta, ndr). Anche perché Pietro Delise, padrone di casa al Jackie O’, il locale dei vip, ha detto a Sky che lei era sempre lì, insieme a Chinaglia e Oddi.

«Pietro era un amico. A Maestrelli invece importava che ottenessimo i risultati. Ci diceva: “Voi fate quello che volete, io voglio vincere”. E ci siamo riusciti».

Ho capito, della Dolce Vita romana non vuole parlare. Torniamo al calcio, allora. Mi racconta di quella volta al Camp Nou contro Cruijff e Neeskens?

«Coppa Uefa 1975. All’andata avevamo perso a tavolino perché il presidente Lenzini si rifiutò di farci affrontare gli spagnoli. Questo perché la società ricevette pressioni per non giocare per via del regime in Spagna. Assurdo: a noi che ci importava di Franco?».

Anche perché il Barça è espressione della Catalogna, terra antifranchista per eccellenza.

«Appunto. Ma il nostro presidente disse che non si giocava per evitare il rischio di incidenti. Al ritorno invece andammo a Barcellona. E finì 4-0 per loro. E Cruijff e Neskeens si fecero gol».

Com'era Cruijff?

«Grandissimo giocatore. Cruijff segnava caterve di gol contro le difese che schieravano il libero a protezione dietro il marcatore; oggi contro due centrali larghi e con tanti metri alle spalle farebbe sfracelli. Ma ho giocato anche tre volte contro Pelé durante alcune tournée negli Usa con la Lazio. Il difensore più forte di tutti? Beckenbauer. Me lo sono trovato di fronte a Roma in una amichevole all’Olimpico contro il Bayern. Un imperatore del calcio».

Come sono stati questi suoi 40 anni lontano da Roma?

«In realtà all'inizio avevo pensato che ci sarei tornato. Avrei potuto fare qualsiasi cosa, conoscevo tante persone».

Invece tornò al Pavia come giocatore per due anni e non ha più lasciato Vidigulfo.

«Al Pavia sono stati due anni di un giocatore a fine carriera pieno di acciacchi, ma comunque il campionato alla fine lo abbiamo vinto. Quando ho smesso, ho pensato di tornare a Roma. Poi mio papà non stava bene e... non mi sono più mosso».

Con i compagni di allora rimase in contatto?

«Certo, soprattutto con Pulici, D'Amico, Wilson che era una persona molto intelligente, Facco e Oddi. Sono andato a Roma per tanto tempo tutti gli anni. Ricordavamo i tempi belli insieme. Poi tanti di loro, troppi, sono morti. Io a Roma in quei dieci anni tra il 1972 e il 1982 sono stato davvero bene. I miei ricordi sono associati a felicità e divertimento. E all'umanità delle persone che stavano dietro le quinte. Il massaggiatore Trippanera, Pelé il magazziniere, la signora Gina addetta alla lavanderia e Gabriella, la storica segretaria. Finchè è stato possibile sono rimasto in contatto con tutti. Oggi soprattutto con Giancarlo, Oddi, che è un grande amico».

Renzo, mi fa vedere una maglietta di quella Lazio? Magari quella con lo scudetto?

«Mi spiace deluderla, ma non ho più nulla di quel periodo. Perché? E' andata così, non so spiegarglielo. L'ultima diciamo così reliquia era la maglia della nazionale Under 23. Ci tenevo tanto e l'avevo appesa in casa. Poi un giorno il figlio di un amico l'ha vista e ha detto che era proprio bella. Così gliel'ho regalata».

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