Venezia e il dilemma del Carnevale
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foto da Quotidiani locali
Ci (ri)siamo con il Carnevale di Venezia.
Si comincia sabato prossimo, 27 gennaio, ma in sordina per la concomitanza con il Giorno della Memoria, poi da domenica via ai festeggiamenti veri, fino al 13 febbraio.
Sarà anche l’ultimo carnevale senza ticket d’ingresso, tema: “Ad Oriente – Il mirabolante viaggio di Marco Polo”.
E poi: duecento artisti, un migliaio di spettacoli e spettacolini ma niente Volo dell’Angelo per i cantieri che ingombrano piazza San Marco, alberghi già pieni all’85 per cento per il primo week-end e verso il tutto esaurito per l’ultimo, “Il barbiere di Siviglia” alla Fenice, dj set, percorsi enogastronomici, appuntamenti notturni concentrati all’Arsenale, balli esclusivissimi e costosissimi per pochi, ressa per tutti gli altri, insomma il solito tema con variazioni, business as usual, plus ça change plus c’est la même chose, e poi si sa che le tradizioni non si discutono: si perpetuano.
Il carnevale fu una delle più geniali operazioni di marketing della Serenissima Repubblica che, essendo in Italia l’unico Stato serio, era attentissima alla frivolezza.
Le sue classi dirigenti avevano capito che il carnevale era indispensabile a una società così gerarchizzata.
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Nel suo folle ribaltamento dei ruoli, nell’uso della maschera che annullava le differenze, rendendo un patrizio anonimo come un plebeo e viceversa, costituiva la valvola di sfogo che, annullando le differenze di casta per un periodo, le rendeva sopportabili per il resto dell’anno.
Se la Serenissima non ha mai dovuto affrontare delle rivolte popolari, è anche grazie al fatto che al popolo poteva mancare qualche volta il panem, ma mai i circenses
Infatti su nessuna manifestazione pubblica c’erano più leggi e controlli e norme del carnevale, un paradosso che rendeva il momento più irregolare della vita sociale quello più regolato.
E poi, naturalmente, la festa era anche un grande affare, forse l’ultimo rimasto.
L’epoca di carnevalite più acuta di Venezia, il XVIII secolo, coincise con quella del suo peggior declino politico ed economico: e non si può non ammirare un’oligarchia che, non potendo più fare della sua città la capitale di un impero, la rendeva almeno la capitale del divertimento.
L’ex Dominante diventava così la Las Vegas d’Europa
Quella nella Venezia in maschera era una tappa obbligata di qualsiasi Grand Tour, e la bautta garantiva l’anonimato indispensabile per incanaglirsi in ridotti, bordelli, teatri, casini e feste. Gilles Bertrand, nella sua brillante “Storia del carnevale di Venezia dall’XI secolo ai giorni nostri” (l’ha presa larga, diciamo così), si chiede se, come da leggenda, il carnevale in laguna durasse davvero sei mesi e non soltanto le canoniche sei settimane comprese fra Santo Stefano e il Mercoledì delle Ceneri. L’incredibile risposta è sì.
Era una sorta di carnevale diffuso “identificato dai giorni dov’era tollerato e talvolta obbligatorio portare la maschera”. Un carnevale di sei mesi è un record, superato solo dall’Italia attuale dove il carnevale dura tutto l’anno, ma purtroppo in maniera inconsapevole.
Poi, si sa, il carnevale “vero” finì insieme con la Serenissima. Ma ne rimase la nostalgia, perché com’è noto di Venezia ce ne sono due, quella reale e quella mitica, e forse delle due la più concreta è la seconda. Fu riesumato a partire dal 1980, specie grazie a quel grande uomo di teatro di Maurizio Scaparro: “Une tentative de réenchantement”, un tentativo di reincantesimo, lo chiama scettico Bertrand nel relativo capitolo, insomma lo sforzo di materializzare la memoria. Le tradizioni interrotte sono però difficilissime da riprendere, e certo il carnevale attuale non ha molto a che spartire con quello storico. Interpellati, gli amici veneziani si mostrano divisi.
C’è chi apprezza perché comunque la città si vivacizza, specie sul tardi (a Venezia si fa fatica a girare di giorno, ma di sera, quando i turisti vanno a dormire devastati dalle camminate e dalle pizze predigerite, sembra che ci sia il coprifuoco) e chi si arrabbia perché è l’ennesima invasione, la solita Disneyland con le mascherine made in China al posto di quelle da Topolino, ancora più affollata, caotica, invadente. L’impressione è che il carnevale riproponga, portandolo all’ennesima potenza (e forse, quanto a soluzioni praticabili, anche alla massima impotenza), il consueto dilemma veneziano.
Che turismo vogliamo, di quantità o di qualità? E, di conseguenza, quale carnevale? Le feste chicchissime o lo sbrago collettivo? Con tutte le discussioni, e anche le scelte politiche, che ne discendono
Vedere Venezia almeno una volta nella vita è un diritto dell’uomo, e la scrematura per censo senz’altro odiosa.
Però è anche vero che la città è fragilissima, e che il diritto di visitarla non comporta quello di distruggerla, o almeno di distruggere la vita ai non molti veneziani che ancora eroicamente ci resistono, e che vorrebbero vivere in una città, non in un parco di divertimenti per foresti. Il rebus pare insolubile. In ogni caso, buon carnevale.