Processo alla mala del Tronchetto, la rivelazione in aula: «La rapina all’Hotel Belle Arti fallita a causa della pandemia»
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foto da Quotidiani locali
Le botte a Stefano Fort per rubargli il trolley con 500 mila euro dopo avergli mostrato due distintivi falsi dei carabinieri. La rapina andata male a Venezia, in pieno giorno, dopo essersi travestiti da postini per essere più credibili ma sventata dall’anziana che al citofono dice di «non aspettare alcuna raccomandata».
Gli appostamenti e i sopralluoghi per ripulire l’hotel Belle Arti: progetto poi abortito per lo scoppio della pandemia.
E poi la paura di ritorsioni dal gruppo se si fosse tirato indietro e le confidenze di Trabujo che voleva uccidere Alessandro Rizzi, detto il Doic, Ieri, nell’aula bunker di Mestre, nel corso del processo sulla cosiddetta “Mala del Tronchetto”, è andata in scena la deposizione del pentito Festim Shemollari, 32enne di passaporto albanese, ma lunga residenza a Cavallino-Treporti. Dichiarante ma non, formalmente, collaboratore di giustizia, già condannato in abbreviato, Shemollari ha ripercorso i vari episodi che l’hanno visto protagonista nelle rapine, realizzate o tentate, da parte del gruppo capeggiato da Loris Trabujo, Gilberto Boatto e Paolo Pattarello e intenzionato secondo la Procura di Venezia e il pm Giovanni Zorzi, titolare dell’inchiesta, di voler ricostituire la Mala del Brenta.
Uomo a disposizione del gruppo per le azioni da compiere sul territorio, Shemollari ha ripercorso l’origine della conoscenza con Trabujo, avvenuta a Punta Sabbioni mentre lui si trovava in regime di semilibertà dopo essere stato condannato in Toscana, da minorenne, per concorso in omicidio.
«Loro contavano su di me», le parole di Shemollari nel rispondere al pm Zorzi, «non stavo bene con i soldi. Ricevevo indicazioni da Trabujo, mi diceva come procedere».
Tra gli esempi portati in udienza, anche quello di un furto da realizzare insieme a Gianfranco Sedda in un appartamento a Venezia dove, sulla carta, avrebbero dovuto esserci tanti soldi.
«Stavamo a osservare ma era molto frequentato dai passanti. A un certo punto passa un certo Pipino che parla con Sedda e gli chiede: “allora lo fate questo lavoro? Ci sono altre persone che lo vogliono fare”. Alla fine non si fece nulla».
Esito opposto, invece, rispetto alla rapina al check point di Actv compiuta da Shemollari e Trabujo per un bottino di 5-600 euro. «Avevamo le armi, per quel lavoro ho ricevuto 100 euro», continua Shemollari. Cinquecento mila euro invece il bottino della rapina, questa sì andata a segno, ai danni di Stefano Fort che aveva appena incassato i soldi per la per la cessione della sua società, comprensiva di licenza di noleggio con conducente, ad un albergatore.
«Io e Corradini avevamo armi, i distintivi dei carabinieri, un taser e una fondina. Doveva parlare lui perché altrimenti si sarebbe capito che io ero straniero. Da quella rapina ho ricevuto 8 mila euro».
Il colpo va a segno, i due scappano in barca fino a Fusina dove li aspetta Trabujo. Finita nel nulla, invece, l’idea di compiere una rapina all’hotel Belle Arti a Venezia: «Il proprietario possedeva sette alberghi, ma lì versava tutti gli incassi. Avevamo deciso il giorno, poi è successa la pandemia, non c’era più nessuno in giro e abbiamo deciso di rinviare».
Se il referente diretto era Trabujo, all’organizzazione dei colpi però secondo Shemollari partecipava attivamente anche lo “Zio”, Gilberto Boatto. Come quando lui, Trabujo, il fratello Denis e appunto, Boatto, si trovano di persona da un meccanico di Marghera per programmare: «Stavano organizzando dei pedinamenti a una barca del Civis per fare una rapina. Doveva essere attraccata al Lido. Lo Zio sapeva esattamente tutte le attività».
Nel corso dell’udienza è poi emerso il rapporto tra Shemollari e lo stesso Trabujo, oltre che tra le rispettive compagne.
Compresa quella di Trabujo («Non credo fosse al corrente di quello che facevamo»). Shemollari, comunque, ha raccontato di aver avuto paura: «Avevo iniziato a fare questi lavori ma volevo uscirne, stavo mettendo su famiglia. Non sapevo come tirarmi fuori, continuavo ad andare avanti perché mi raccontavano le storie della Mala del Brenta che aveva fatto stragi. Avevo paura che se mi sarebbe successo qualcosa».
A Shemollari, Trabujo aveva anche confidato di voler uccidere il “Doic” Rizzi a Cavallino: «Stava organizzando di ucciderlo mentre andava a pesca».