«Ugo La Malfa, mio padre». Così Ca’ Foscari segnò l’inizio di una straordinaria avventura
foto da Quotidiani locali
Ugo La Malfa? Un padre della Repubblica e antifascista liberale, la cui straordinaria avventura politica inizia a Ca’ Foscari. A 98 anni dalla laurea, l’Università di Venezia con una public lecture affidata al figlio Giorgio, ex deputato e ministro, ha ripercorso le tappe del leader del Pri che con Spadolini e Visentini ha segnato le svolte dell’Italia. Da giovane Ugo La Malfa si unisce ai partigiani del Partito d’Azione e Ferruccio Parri lo nomina ministro dei Trasporti nel 1945 subito dopo la liberazione. Deputato dal 1948 al 1979, entra nei governi altre 4 volte con De Gasperi e Rumor, è un teorico della politica dei redditi, allievo del riformismo keynesiano. Sostiene l’apertura al Psi di Nenni nel 1963, dialoga con Berlinguer nella stagione della solidarietà nazionale ed è un tenace avversario del boom della spesa pubblica e del clientelismo Dc. Sa dire«no» al salvataggio delle banche di Sindona e sostiene Baffi alla guida di Bankitalia.
Onorevole Giorgio La Malfa, perché suo padre si è laureato a Venezia?
«Mio padre nasce in una famiglia siciliana molto povera, studia Ragioneria e un professore insiste perché frequenti l’università. Nel 1920 da privatista fa la licenza classica e con l’aiuto finanziario di una parente s’iscrive a Venezia. Allora il Regio Istituto per il Commercio aveva due lauree: lui sceglie quella in Scienze diplomatiche e consolari. Sono gli anni dell’affermazione dei “cavalieri della morte” che indossavano una camicia nera col teschio stampato. Gli antifascisti si radunavano a Campo Santa Margherita e non potevano andare in piazza San Marco, altrimenti finivano dentro ai canali».
La laurea arriva nel 1926: chi sono stati i suoi maestri?
«Ne ha avuti tre: Francesco Carnelutti, Silvio Trentin e Gino Luzzatto, il grande storico dell’economia commemorato proprio a Ca’ Foscari nel 1974 per ricordare il ruolo del Partito d’Azione nella Resistenza. La formazione economica si completa nel 1934 quando entra in Banca Commerciale con Raffaele Mattioli, in un ambiente saldamente antifascista. E nel 1936 studia la Teoria generale di Keynes e analizza l’esperimento del New Deal di Roosvelt. Il secondo maestro è Silvio Trentin, professore di istituzioni di diritto pubblico che lo avvia nell’impegno in politica».
E il terzo personaggio chiave?
«Francesco Carnelutti, docente di Procedura civile a Padova e a Ca’ Foscari con cui mio padre si laurea nel 1926 con una tesi sui contratti di lavoro. Ma dopo un paio di esami abbandona Padova, perché Carnelutti “con la sua logica astratta appare come un acrobata del diritto” e rinuncia alla carriera accademica».
I rapporti con Silvio Trentin invece non si sono mai interrotti: come mai?
«In attesa della laurea nel 1926 mio padre si trasferisce a Roma e Silvio Trentin, che poco tempo dopo emigrerà in Francia, gli fa conoscere Giovanni Amendola, fondatore del settimanale “Leonardo” con Papini e della “Voce” con Prezzolini. Giornalista al Resto del Carlino e al Corriere della Sera, entra in Parlamento nel 1919 con i liberali e diventa ministro dei due governi Facta nel 1922. Come Croce e Albertini vedeva nel fascismo una reazione agli eccessi del massimalismo socialista, ma dopo la legge Acerbo e l’omicidio di Giacomo Matteotti nel 1924 Amendola diventa uno dei più tenaci avversari di Mussolini e organizza l’Aventino, con il rifiuto di partecipare ai lavori della Camera. Fonda l’Unione Democratica Nazionale e mio padre partecipa al congresso nel 1925, con un intervento che suscita emozione. Due mesi dopo, Amendola viene bastonato a sangue a Montecatini e muore a Cannes nel 1926».
Perché lei insiste nel sottolineare lo stretto legame con Giovanni Amendola?
«Perché mio padre ha continuato la battaglia di Amendola e ne ha raccolto l’eredità morale come leader dell’ala liberale antifascista. Quasi da solo. Negli anni ’40 è uno dei fondatori del Partito d’Azione e anche nel rinato Partito Repubblicano ha sempre svolto questo ruolo: lui in assoluta solitudine perché i figli degli altri parlamentari di estrazione liberale avevano aderito al Pci. Sto parlando di Giorgio Amendola, di Enrico Berlinguer e di Bruno Trentin che si uniscono al Pci clandestino perché si convincono che solo i comunisti siano in grado di resistere al regime fascista. Anche Leo Valiani, in carcere a Civitavecchia nel 1929 conosce Terracini e s’iscrive al Pci “perché quelli la rivoluzione la sapevano fare” a differenza dei socialisti Nenni, Turati, Modigliani e Treves».
Com’è finita con Amendola? «Giorgio Amendola, figlio di Giovanni, nell’autobiografia “Una scelta di vita’’ racconta che nel 1928 litiga con mio padre che gli dice: tu non puoi andare con i comunisti, ti chiami Amendola, non puoi tradire la battaglia liberale antifascista. Non c’è stato verso di convincerlo. Per dieci anni non si parlano più. C’è un aneddoto che mi riguarda».
Quale?
«Nel 1972 vengo eletto deputato del Pri in un collegio del Piemonte: è il mio debutto a 32 anni. Un giorno alla buvette della Camera entra Giorgio Amendola che io non conoscevo se non di vista e mi dice: Giorgio non farci caso, quando tuo padre polemizza con noi non ce l’ha con il Pci ma solo con me».
I rapporti tra Pri e Pci come sono evoluti?
«Nel 1978, un anno prima di morire, mio padre scrive un articolo su Foreign Affairs per spiegare agli Usa l’importanza dei governi di solidarietà nazionale. La svolta della Dc s’interrompe con l’uccisione di Aldo Moro, che non è un semplice blitz terroristico ma il frutto di una strategia per bloccare l’ingresso del Pci nell’area di governo. Il mondo cambia davvero con la caduta del Muro di Berlino nel 1989. Mio padre non è mai stato un anticomunista viscerale, era un riformista in concorrenza con Berlinguer: lui voleva creare le condizioni per una democrazia compiuta in cui l’alternanza delle maggioranze non fosse un’avventura».