A Venezia i capannoni abbandonati sono millequattrocento: la difficile sfida della riconversione
Millequattrocento capannoni produttivi abbandonati, vuoti e senza più un uso coerente con le loro caratteristiche: uno su dieci, nella provincia di Venezia.
La più complicata tra quelle venete, ancorata a un sistema industriale novecentesco e di difficile riconversione. Negli ultimi dieci anni, Venezia è apparsa anche più lenta rispetto alle altre province nella riconversione del dismesso.
Ha strappato all’abbandono soltanto centosettanta volumi, appena il 10% dei capannoni chiusi.
E pensare che uno scatto sugli interventi di demolizione e recupero potrebbe generare un indotto di 1,21 miliardi di euro, tra nuove funzioni, ristrutturazione, efficientamento energetico.
Sono i dati drammatici che Confartigianato metropolitana ha presentato a Villa Patriarca di Mirano nel corso di un convegno durante il quale l’urbanista Federico Della Puppa ha portato dei nuovi dati sull’argomento, offrendo qualche prospettiva.
Quali soluzioni, dunque? Al tavolo di Mirano si è condiviso il superamento del concetto di destinazione d’uso, che rappresenta ormai un ostacolo alla riconversione dei volumi; su un maggiore e più intenso utilizzo dei crediti edilizi; e sul salto culturale che tutti - proprietari in testa - devono fare: oggi il metro cubo non ha più valore ma molto spesso è soltanto un costo.
«Venezia è differente rispetto alle altre città del Veneto. Le ragioni sono diverse - spiega Della Puppa, urbanistica di Smart land - ma certamente legate anche alla presenza di Porto Marghera con i suoi spazi enormi.
Nella Riviera del Brenta, ad esempio, è saltato il modello di casa-capannone e quindi ci sono decine di fabbricati produttivi, dentro a contesti urbani, che non hanno più senso.
E poi la nuova domanda, soprattutto di superfici logistiche, non incontra l’offerta. La produzione è cambiata e ha bisogno di servizi e connessioni diverse da prima, per questo è così difficile riconvertire i volumi.
Venezia rischia di restare ancorata a un modello industriale del passato e di non agganciare i nuovi flussi della produzione. Bisogna superare anche il concetto di destinazione d’uso, che rappresenta un ostacolo alla rigenerazione dei volumi. Utilizzando ad esempio lo strumento degli usi temporanei, previsto dalla legge regionale 14/2017. E pensare che il metro cubo non ha sempre un valore: a volte è semplicemente un costo, come una vecchia auto non più circolante».
Siro Martin, presidente di Confartigianato metropolitana, è ancora più netto: «Abbiamo un patrimonio edilizio dismesso enorme, frutto anche delle leggi Tremonti e dei superammortamenti. Noi proponiamo il superamento dei vincoli sulle destinazioni d’uso, se compatibili con il paesaggio, il coraggio di attingere ai crediti edilizi per la demolizione e la possibilità di realizzare impianti fotovoltaici in alcune situazioni».
Sulla stessa lunghezza d’onda anche Michele Furlan, presidente della Federazione degli edili della Confartigianato: «Si possono fare tante cose, con questi volumi: tentare la rigenerazione, efficientamento energetico, demolirli in alcuni casi usandoli come credito edilizio, realizzare delle comunità energetiche. Sono volumi che non hanno più un futuro produttivo e dunque vanno rimessi sul mercato». Fiorella Angeli e Della Puppa hanno anche messo in luce il volano economico che la riconversione può generare: 230 milioni di euro solo dalla nuova destinazione produttiva, 560 milioni dalla nuova destinazione non produttiva, 147 milioni dagli usi temporanei, 110 milioni dall’efficientamento energetico, 22 milioni dalla destinazione e 15 milioni dalla rinaturalizzazione dei luoghi.
«Complessivamente gli investimenti attivabili a seguito degli interventi di demolizione/recupero del patrimonio produttivo non utilizzato in provincia ammonterebbero a 1,21 miliardi di euro».