Dallo scheletro di 10 metri al “cestone”. Viaggio tra le installazioni giganti della Biennale
foto da Quotidiani locali
“Giganti” artistici in laguna, sulle orme di “Las Meninas”. La maxi-installazione in Piazzetta San Marco dello scultore spagnolo Manolo Valdés, con le 13 grandi statue in bronzo disposte in fila e tratte dai personaggi dei dipinti barocchi di Diego Velàzquez, ha fatto scuola. E proprio nel periodo della Biennale Arte appena inaugurata, sono spuntate altre due opere gigantesche in città.
La prima è il monumentale “scheletro”, di circa dieci metri d’altezza, affacciato sul Canal Grande, nel giardino di Palazzo Balbi Valier, tra l’Accademia e la Collezione Guggenheim. È opera dello scultore belga Tom Herck, e mostra appunto un enorme scheletro che a sua volta “pesca” con la canna in mano un atro scheletro, riferito a un dinosauro, ma più piccolo. “Once We Ruled the World” (una volta governavamo il mondo), questo il titolo della scultura-installazione, descrive appunto l’interazione tra scheletri umani giganti e scheletri di dinosauri a grandezza naturale.
Sebbene gli esseri umani e i dinosauri non abbiano mai coesistito, il fascino duraturo per i dinosauri esplora per l’artista i temi dell’estinzione, dell’evoluzione e del passare del tempo. L’installazione, dunque, sarebbe “un monito sull’impermanenza del potere e sulla natura ciclica della storia, stimolando la riflessione sull’ascesa e la caduta delle civiltà, o specie, che un tempo dominavano il pianeta per periodi prolungati”. C’è da chiedersi se tutti a Venezia, in questo momento, sentissero il bisogno di tale riflessione e in tali dimensioni, chiaramente fuori scala rispetto a quella urbana. Ma anche gli organi di tutela, che l’hanno autorizzata, ne ravvisavano, evidentemente, la necessità. Discorso analogo per un’altra mega installazione, leggermente più piccola, “solo” sette metri, spuntata su una piattaforma galleggiante in acqua di fronte all’Arsenale Nord.
A poca distanza dalle gigantesche “Mani” dello scultore Lorenzo Quinn, sei paia da 15 metri per 20, collocate all’interno dell’Arsenale in via provvisoria per la Biennale del 2019. Ma che dopo cinque anni sono ancora, placidamente, nello stesso posto. La “new entry” è un enorme “cestone” ligneo con al centro un albero e attorno adesso una sorta di platea rotonda dove è possibile sedersi, fino a cinquanta persone per volta.
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È opera dell’artista svizzero Klaus Littmann, che si definisce allievo del grande Joseph Beuys, e si intitola “Arena for a Tree”. Le doghe in legno, curve e piegate, sono tenute insieme da un anello di tensione e da una cinghia di compressione in acciaio.
L’albero al centro dell’installazione è un cipresso calvo, capace di pompare fino a 800 litri di acqua alluvionale al giorno. Scopo dell’opera, nelle intenzioni dell’artista, sarebbe quello di diffondere un messaggio sul riscaldamento globale e la sostenibilità.
La parola “sostenibilità” è diventata ormai uno dei riferimenti della nostra società. Ma la sostenibilità di strutture di queste dimensioni, calate nella scala urbana di una città a misura d’uomo come Venezia, pare non essere invece più un problema contemplato da chi le propone e da chi le consente.