Canada: non è un bel clima per Trudeau

un problema. E la popolarità del politico liberale è in crisi.Cos’è rimasto, in Canada, delle «sunny ways», le luminose strade della vittoria elettorale nel 2015 di Justin Trudeau, leader del partito liberale e uomo-copertina dei progressisti mondiali dopo l’uscita di scena di Obama? Nei giorni della recente eclissi totale del decennio la risposta rischia di essere ovvia. Negli stessi giorni, in un monologo di otto minuti, il Maurizio Crozza americano, Bill Maher, ha smontato «la visione sbagliata del Canada che molti americani frustrati hanno maturato negli ultimi anni: un paradiso liberale, un gigantesco Blue State idealizzato, con l’assistenza sanitaria universale, il controllo delle armi e l’aborto a semplice richiesta. C’è solo un problema nel pensare che tutto vada meglio in Canada: non è così. Non più, almeno».

Nella lista delle magagne evocate da Maher c’è di tutto: l’aumento della disoccupazione (al 6,1 per cento, a fronte del 3,8 per cento degli Stati Uniti), il peggioramento del sistema sanitario, adesso è all’ultimo posto tra i Paesi a elevato reddito e il più alto rapporto debito/Pil del G7. Già che c’era, Maher ha dato una mazzata anche all’orgoglio ambientalista del Paese dove è nata Greenpeace, citando il World Air Quality Report del 2023: 14 delle 15 città più inquinate d’America e Canada si trovano a nord del confine. Il confronto è fazioso perché fotografa la situazione creata dagli incendi boschivi della scorsa estate, quando andò in fumo l’equivalente di metà della Germania, ma non si può nascondere che il Canada stia vivendo un momento di profonda crisi. Il Paese, quinto al mondo per crescita demografica, è alle prese con la peggior crisi abitativa del G7, innescata in larga parte dall’accelerazione dell’immigrazione, voluta dai liberali per potenziare la crescita economica, coprire i buchi sul mercato del lavoro e garantire la sostenibilità dello «schema Ponzi» pensionistico. I termini dell’equazione sono noti: nel 2022 sono arrivati 1,2 milioni di immigrati mentre mancano 3,5 milioni di case.

Gli economisti Stéfane Marion e Alexandra Ducharme della National Bank of Canada sono dell’idea che l’immigrazione sia un bene per il Pil, ma che «il Canada non abbia le infrastrutture o lo “stock di capitale” per supportare la quantità di ingressi attualmente pianificati, migliorando nel contempo anche il tenore di vita dei cittadini». Tenore che invece è peggiorato. Quando i canadesi si sono accorti che le rate del mutuo erano diventate insostenibili per la stretta monetaria della Banca centrale e che la spesa al supermercato era aumentata dell’11 per cento all’anno hanno fatto due cose: si sono arrabbiati molto e hanno cercato e trovato un colpevole. Ovvero Justin Trudeau. Gli adesivi sui paraurti con la scritta «Fuck Trudeau» o «Lock him up», ovvero «Sbattetelo dentro», sono diventati popolari in una realtà normalmente civile, ma in cui il clima politico si è molto incattivito. Per gli analisti di Morning Consult Pro, il primo ministro ha oggi il favore di solo il 34 per cento dei canadesi, anche se non è l’unico leader del G7 alle prese con un’opinione pubblica «ostile». Il britannico Sunak, il francese Macron, il tedesco Scholz e il giapponese Kishida fanno peggio di lui, e solo Joe Biden e Giorgia Meloni gli sono davanti in termini di gradimento. Per rimediare al crollo nei sondaggi il premier ha anticipato molte delle misure della recente legge di bilancio. Sono, in buona parte, provvedimenti che titillano Millennials e i trentenni della Generazione Z: sostegno per chi affitta una casa, estensione a 30 anni dei mutui per la prima casa, incentivi alle imprese che costruiscono edilizia residenziale, sussidi alimentari nelle scuole e fondi per l’Intelligenza artificiale. Un altro sondaggio di Angus Reid ha però chiarito che la maggioranza dei canadesi pensa che il governo federale spenda troppo e male. In nove anni, i Liberali hanno raddoppiato la spesa, privilegiando, lamenta la critica, gli immigrati e gli aiuti umanitari rispetto alla Sanità o alla Difesa.

Secondo Rebekah Young di Scotia Bank, «questa legge di bilancio non dovrebbe innescare un’elezione, ma ha tutto l’aspetto di un giro di riscaldamento»: in altre parole, l’alleanza dei liberali con i progressisti dell’Ndp dovrebbe reggere sino alle prossime elezioni del 2025, quando Trudeau si presenterà al Paese per chiedere un quarto mandato. Gli scandali e i ripetuti scivoloni mediatici lo hanno costretto a un governo di minoranza già nel 2019 e nel 2021, quando ricorse, cinicamente, alle elezioni anticipate per sfruttare l’onda emotiva del Covid. Nonostante i 77 discorsi televisivi nei primi 100 giorni della pandemia, la barba e i capelli lunghi in segno di solidarietà con le masse e l’acquisto di 10 dosi pro-capite di vaccino, i canadesi non lo premiarono alle urne. Oggi, tre quarti di loro sono stanchi del trasformismo di un leader che è considerato un socialista dai Conservatori e una sorta di Reagan in sedicesimi dai progressisti e vogliono mandarlo a casa. Trudeau, dal canto suo, difende le scelte sull’immigrazione («avremo un vantaggio sui Paesi che invecchiano, ma si sono chiusi») e sulla riconversione al green dell’economia con i proventi del petrolio. Una buona idea sulla carta, ma con una messa in pratica sin qui disastrosa: nel 2018, facendo imbestialire gli ambientalisti, comprò la Trans Mountain Pipeline, un maxi-oleodotto per portare il greggio dall’Alberta alla British Columbia e rimediare alla dipendenza dagli Stati Uniti per la raffinazione e l’esportazione del petrolio del Paese, scambiato fino a 50 dollari al barile in meno rispetto a quello texano. L’oleodotto è costato sin qui più di 30 miliardi di dollari e ora Trudeau si trova a privatizzarlo in un mercato in cui i tassi di interesse hanno ristretto la lista dei potenziali acquirenti e il valore stimato dell’asset. Anche l’idea di utilizzarne i proventi per le popolazioni indigene, negli ultimi mesi, si è arenata. E se non vende in tempo, Trudeau non potrà sperare nel sostegno degli elettori nativi e delle province che vivono di «oil&gas».

Anche in politica estera il bilancio è deficitario: a oggi, il primo ministro ha pessimi rapporti con Cina e India nonché, a suo tempo, con l’America di Trump, ma ha anche autorizzato la vendita di armi a un regime con scarsissimo rispetto per i diritti umani come l’Arabia Saudita. Per il Trudeau «seduttore delle masse» c’è pure un problema di sintonia identitaria con Paese: il giornale conservatore National Post ha criticato la visione post-nazionalista del primo ministro e la sua «fede cieca nella “diversity” e nei valori condivisi, che non è servita a fare del Canada una società più pacifica e pluralistica». I suoi ripetuti richiami al genocidio, con riferimento alle vecchie residential schools usate per «occidentalizzare» i giovani nativi, e al razzismo «sistemico», a partire dai casi di arresti arbitrari operati dalla polizia federale, negano di fatto la reputazione storica di una nazione multiculturale. L’immigrazione musulmana radicalizzata ha colto la palla al balzo: si accredita come una vittima di pregiudizi xenofobi, ma alza i toni della propaganda antisemita, con il comizio, a Montreal, di un imam che prega Allah di sterminare tutti gli ebrei o le interviste, virali su Internet, in cui una «studentessa» con gli orecchini a forma di AK-47 sostiene che Hamas non sia un gruppo terroristico. Il problema, per i critici, è nell’astrattezza delle premesse: come si verifica che i valori di chi entra in Canada siano veramente quelli condivisi, tra tutti il rifiuto dell’antisemitismo? Il governo è pronto e in grado di espellere gli immigrati che rifiutano questi valori?

Nel 2015, Trudeau vinse puntando sulla classe media, ora è concentrato su diritto all’aborto e cambiamento climatico. Tutti messaggi aspirazionali che funzionano poco per chi ha problemi sociali molto più urgenti. Un esempio è la carbon tax: quando fu istituita, i canadesi avevano la sostenibilità come priorità, ora faticano ad arrivare a fine mese e sono in maggioranza contrari al suo aumento annuale programmato. Pierre Poilievre, il leader dei conservatori, ha 10 punti di vantaggio nei sondaggi, ma non è per ora una vera alternativa. Per lui il Canada è in miseria per colpa di Trudeau. Troppo. Per ottenere un quarto mandato, il primo ministro in carica forse non ha bisogno di essere amato e molte cose possono cambiare nei 18 mesi che portano alle elezioni, ma se i conservatori riusciranno a trasformarle in un referendum su di lui, il suo destino sarà probabilmente segnato.