Sandro Pertini, trent’anni senza il partigiano presidente
Chi è nato negli anni Settanta lo ha conosciuto come il suo primo presidente della Repubblica, quello di cui c’era la foto in classe alla scuola elementare. Nessun altro è rimasto nell’immaginario collettivo con altrettanta forza ed è stato ricordato con lo stesso affetto. Il 24 febbraio di trent’anni fa moriva Sandro Pertini, il presidente più amato dagli italiani.
https://www.youtube.com/watch?v=BlUhvdaGgRMUn’immagine su tutte è quella nella memoria, anche di chi non lo ha avuto come presidente: la sua esultanza al Santiago Bernabeu di Madrid, durante la finale del mondiale di calcio del 1982 vinto dall’Italia contro la Germania. Si alzò in piedi per tutti i gol, al terzo disse: «Non ci prendono più». Era vero, ma di solito i politici, anche allo stadio, manteneva un certo aplomb accanto al presidente del paese avversario e al re di Spagna.
https://twitter.com/RaiTre/status/1008776052431360000Pertini no, esultò come avrebbe fatto a casa davanti alla tv un cittadino qualunque e giocò a carte con i calciatori e Bearzot tornando con loro on aereo. Il suo segreto era questo: la normalità. Non aveva toni professorali, non sembrava parte dei giochi della politica, era vicini agli italiani. Nazional-popolare è il termine più usato, ma non in accezione negativa. Era simbolo della nazione e insieme personaggio di grande popolarità, tanto che nella più nazional-popolare delle canzoni, L’Italiano di Toto Cutugno, è citato: «un partigiano come presidente».
Sandro Pertini era nato a San Giovanni di Stella, piccolo comune dell’entroterra savonese, il 25 settembre 1896. Aveva combattuto nella Prima Guerra mondiale appena diciannovenne. «Ero sottotenente mitragliere e, un giorno, sulla Bainsizza vedo arrivare uno con le mani alzate», raccontò a Oriana Fallaci, «Si dà prigioniero. Viene avanti, cade nella trincea, e ha il volto a pezzi. Una maschera di sangue. Allora buttai via il caricatore della mia rivoltella e non ce lo rimisi mai più. Da quel giorno, andai sempre all’assalto con una rivoltella senza caricatore».
Dopo arrivò la laurea in giurisprudenza e insieme l’adesione alle idee del socialismo riformista di Filippo Turati con la richiesta della tessera del partito con la data dell’omicidio di Giacomo Matteotti. Il primo arresto nel 1925 per attività contro il fascismo. Arriveranno anche la condanna al confino come «avversario irriducibile del Regime», la fuga in Francia, il ritorno clandestino in Italia e l’arresto. Il 30 novembre 1929 la condanna dal Tribunale Speciale a 10 anni e 9 mesi di reclusione e a 3 anni di vigilanza speciale.
Reagì in maniera furente quando la madre chiese per lui la grazia a Mussolini. «Se penso che le scrissi: “Io ti considero morta per ciò che hai fatto”. Se penso che la tenni due mesi senza posta. Ero esasperato ma commisi ugualmente una crudeltà. Me ne resi ben conto il giorno in cui la censura lasciò passare una lettera dei miei amici di Savona. Era una lettera in cui mi dicevano: Sandro, tu la stai ammazzando questa povera vecchia. Lei non è colpevole, Sandro: fummo noi a cercarla e chiederle di domandare la grazia. Lei rispondeva no, non devo farla la domanda di grazia perché il mio Sandro non vuole, gliel’ho promesso, gliel’ho giurato, voglio esser degna di lui. Ma noi insistemmo».
Nel 1935, finita di scontare la pena in carcere, andò al confino, prima a Ponza e poi a Ventotene. Venne liberato il 13 agosto 1943, pochi giorni dopo la caduta di Mussolini. Catturato di nuovo è stato condannato a morte insieme a Giuseppe Saragat. La sentenza, però, non venne eseguita grazie a un’evasione rocambolesca organizzata dalle Brigate Matteotti. Da Roma andrà nel Nord occupato dai tedeschi come parte del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia. La sua voce annunciò la liberazione. Pertini voleva una resa incondizionata del Duce, ma condannò lo scempio dei corpi a Piazzale Loreto. «Io il nemico lo combatto quando è vivo e non quando è morto. Lo combatto quando è in piedi e non quando giace per terra».
Eletto nell’Assemblea Costituente sposò Carla Voltolina, staffetta partigiana conosciuta a Torino. Nel 1949, Pietro Nenni lo nomina direttore dell’Avanti!, il quotidiano del Partito socialista, negli anni ancora vicino anche all’Unione Sovietica di Stalin e capace di non condannare l’invasione dell’Ungheria e di partecipare ai funerali di Tito in Yugoslavia.
Dal 1968 presidente della Camera e poi a sorpresa dieci anni dopo la presidenza della Repubblica. Il presidente Leone si era dimesso per lo scandalo Lockeed, l’Italia era nel pieno degli anni di piombo a pochi mesi dal rapimento Moro. Il comandante partigiano venne eletto l’8 luglio 1978 con 832 voti su 995, la più larga maggioranza della storia repubblicana. Non abitò mai al Quirinale, ma in un piccolo appartamento sulla piazza della Fontana di Trevi.
È stato il primo Capo dello Stato a dare l’incarico di formare il governo a un politico non democristiano e, al momento del terremoto in Irpinia, capace di criticare apertamente l’operato del governo. Fu a Bologna il giorno dei funerali delle vittime della strage alla stazione nel 1980, andò alla Sapienza pochi minuti dopo l’omicidio Bachelet, accorse a Vermicino dove un bambino, Alfredino Rampi, era caduto in un cunicolo da cui non sarebbe mai più uscito. Accanto alle persone sempre come disse in un discorso all’Italsider: «Se non vuoi mai smarrire la strada giusta resta sempre a fianco della classe lavoratrice nei giorni di sole e nei giorni di tempesta.»