Atleti, calciatori, ciclisti: ecco “I giusti nello sport” contro le persecuzioni
foto da Quotidiani locali
I Giusti che salvarono gli ebrei dalla morte, ricordati nel Giardino del Mausoleo di Yad Vashem di Gerusalemme, furono ventimila. Tanti, forse troppi per piantare, come si fece negli anni Sessanta, un albero di carrubo per ognuno di loro. I loro nomi sono stati scritti sui muri. E impressi nella memoria. Dopo la Shoah però le persecuzioni, nel mondo, non si sono fermate.
Dal 1999 Fondazione Gariwo - acronimo di Gardens of the Righteous Worldwide - crea Giardini dei Giusti in tutto il mondo e diffonde il messaggio della responsabilità individuale. Il libro, a cura di Gino Cervi, I Giusti e lo sport. Storie di atleti che hanno scelto il bene fa parte di questo percorso. Martedì alle 17, nel salone Teresian della Biblioteca Universitaria, ne parleranno Gino Cervi, Matteo Corradini e Joshua Evangelista (Fondazione Gariwo).
Il libro accoglie venti storie di atleti che hanno scelto il Bene e la Verità: tra le altre, quella del coraggioso antinazismo del calciatore austriaco Matthias Sindelar; quella della staffetta partigiana ciclista Augusta Fornasari e quella, ben più nota, del grande Gino Bartali contro il fascismo e il nazismo.
il Pugno chiuso per i diritti dei neri
Nè va dimenticato il pugno chiuso in un guanto nero dei velocisti americani Tommie Smith e John Carlos, nello stadio Olimpico di Città del Messico il 16 ottobre 1968.
Il fotografo John Dominis scattò loro una foto che sarebbe diventata una delle più famose del Novecento, simbolo di un decennio di proteste per i diritti civili dei neri.
E ancora Dana Zátopková, scomparsa nel 2020 a 97 anni, vincitrice nella gara di lancio del giavellotto ai Giochi di Helsinki nel 1952. Medaglia d’oro come il marito, il mezzofondista e maratoneta Emil Zàtopek, che vinse i 10mila piani in quello stesso giorno. Zàtopek Zátopek, icona del suo Paese, la Cecoslovacchia, arringò la folla durante la Primavera di Praga e firmò il Manifesto delle duemila parole di Ludvík Vaculík. Duemila parole dirette a operai, contadini, impiegati, scienziati, artisti e contro quel regime che lo condannò a lavorare in una miniera di uranio, per punizione.
Khalida Popal - siamo ai nostri giorni - calciatrice e capitano della nazionale femminile afgana ha sfidato, con coraggio, l’autorità dei talebani. «Dopo anni di umiliazioni verbali e fisiche, ho alzato la voce e ho giocato a calcio» racconta nelle interviste.
Nel 2012, dopo essere stata la fondatrice del calcio femminile afghano, è stata costretta a lasciare il Paese per le gravi minacce rivolte a lei e alla sua famiglia.