Vivere nell’inquinamento a Marghera. «Io, figlia dell’idrocarburo»

«Porto Marghera è stato un luogo atroce, ma io ci sono nata e mi sento come le piantine che nascono nelle fessure dell’asfalto. Sono una figlia dell’idrocarburo».

Capita di trovarsi davanti a una storia, piccola e personale. Ma che racconta un pezzo di storia collettiva e ancora attuale.

L’aggancio è la scelta del consiglio comunale di mantenere, dopo anni di promesse di trasferimento, i depositi della San Marco Petroli a poco più di cento metri dalle case di Malcontenta.

Bruna Malaguti, nota speaker e voce delle emittenti radiofoniche del Veneto, apre l’album dei ricordi. Perché lei a due passi da un deposito costiero è nata nel 1955 e vi ha vissuto fino agli 8 anni.

«Credo sia una caratteristica piuttosto unica. Sono nata in via dei Petroli. Ho abitato a fianco del deposito costiero dell’allora Shell italiana. E sono cresciuta tra operai, camion, i treni che entravano dentro lo stabilimento».

Le foto dell’epoca ci riportano alla Bruna, bimbetta sorridente che gioca con la neve tra depositi e le raffinerie dell’isola dei Petroli dove oggi si trovano la Petroven e la bioraffineria di Eni.

Una penisola del petrolio nata da terreni di colmata affacciati sulla laguna al di là del canale Brentella dove attraccavano le petroliere.

Negli anni Sessanta si scava il canale dei Petroli per evitare il passaggio davanti a San Marco delle petroliere (come le crociere bandite dal Bacino).

Le aziende all’epoca si chiamano Dicsa, Agip, Irom, Damiani e Giorgio, Api, e soprattutto le grandi multinazionali Gulf, Shell, Esso.

Sono gli anni dell’avvio della grande Porto Marghera del lavoro dove negli anni Settanta lavorarono oltre 40 mila persone. Bruna Malaguti continua.

«La casa dove sono nata si vede ancora oggi a fianco dell’ingresso della Petroven. Mio padre era stato assunto dalla Shell come capo fabbrica. Era tra i pochi diplomati a disposizione dopo la fine della guerra, e da Genova i miei genitori, giovanissimi, arrivarono a Marghera. Lui era responsabile e nel contratto, aveva come benefit, pure la casa. Stavamo bene economicamente», spiega.

«Da bambini ci si abitua subito a tutto e io in fretta mi sono abituata a giocare in mezzo al via vai di camion e operai. Giocavo spesso con mia zia, allora sedicenne, e che per me è una sorella maggiore. Mia madre, invece, faceva fatica: mi ricordo quando dalla cucina con le finestre aperte entrava il puzzo dei camion in coda e lei protestava, chiedendo che spegnessero i motori», racconta.

«Ho imparato a scrivere le prime parole guardando la tv perché all’asilo non mi hanno mai portato, era scomodo muoversi da lì. Giocavo nella barena fronte fabbrica, tra rospi e pozzanghere».

A 5 anni Bruna è testimone, con la mamma, della tragedia del settembre 1960, dimenticata come tante.

L’incendio furioso della petroliera Rosa Pellegrino. Morirono in tre: il comandante, il capo macchinista e sua moglie mentre 14 membri dell’equipaggio rimasero ustionati.

«Papà, che era in azienda, avvisò subito mia mamma, invitandola a correre fuori di casa il più lontano possibile, assieme a me. Ci rifugiammo in barena. Il fumo era altissimo e tantissimi vigili del fuoco erano al lavoro per spegnere le fiamme. Era pieno di gente che guardava».

Poi le elementari alla Vecellio, nel centro di Mestre. «Feci fatica all’inizio ad ambientarmi con gli altri bambini. Ero cresciuta tra gli adulti, gli operai che arrivavano sulle biciclette o con i bus da via Righi che raccoglievano quanti arrivavano dal Veneto Orientali. Tanti erano contadini che avevano lasciato la campagna per il lavoro nelle fabbriche. Imparai tantissime barzellette che gli altri bimbi non capivano», ricorda.

I ricordi lasciano il posto all’amaro in bocca. «Abbiamo saputo dopo quanto è stata atroce questa pagina della storia. In una foto sono con il nonno: dietro si vede il canale che non esiste più. Venne riempito di terreni avvelenati. La scelta di costruire la enorme zona industriale a fianco di Venezia e della sua laguna, così fragili, è pari alla tragedia del Vajont», spiega.

La grande città del lavoro stravolge Mestre dove si costruiscono freneticamente case per le famiglie degli operai.

Marghera è il centro di battaglie del lavoro, dei diritti. Poi anche della salute. Bruna, intanto, va a vivere a Carpenedo, poi in via Miranese con i genitori. Diventa grande ma non dimentica. «Mio suocero, operaio della Fertimont, è morto di tumore appena alcuni anni dopo la pensione. E come lui tantissimi altri», ricorda.